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di GIANNI PAONE
Nei giorni scorsi è stato presentato a Roma il Rapporto sul sommerso e l’economia non regolare elaborato dalla Commissione regionale sull’emersione. Emergerebbe il quadro di una Calabria virtuosa che è riuscita ad ottenere risultati positivi nella costruzione di nuovi posti di lavoro, nella lotta all’economia sommersa frutto “di azioni mirate di un attento monitoraggio su questo delicato fenomeno in una Calabria in controtendenza sul versante del sommerso su quello dell’occupazione”. Ora, se le cose stessero effettivamente così, tutti saremmo ben lieti di festeggiare le magnifiche sorti e progressive della Calabria e della giunta regionale che la dirige. Ma la realtà è ben diversa. Autorevoli fonti ci dicono che, ad oggi, la situazione è ben differente da quella descritta dalla Commissione regionale. La Confartigianato, rapporto 2010, comunica che “in termini percentuali, i lavoratori irregolari oggi incidono, in Italia, per l’11,8% della forza-lavoro. Nel Meridione la percentuale di irregolari sale al 18,3%, fino a raggiungere la punta del 27,3% in Calabria (più di un lavoratore su quattro)”. Non a caso sono proprio tre province calabresi le più interessate dal fenomeno (Crotone, Vibo Valentia e Cosenza). L’Eurispes parla di oltre 250 mila nuclei familiari in Calabria (pari al 34,4% del numero complessivo delle famiglie) che vivono in preoccupanti difficoltà economiche. Un vero e proprio esercito. Cresce il numero dei cosiddetti “working poors”: lavoratori regolari ma con un reddito insufficiente, operai, commessi, lavoratori autonomi per non parlare dei pensionati, con un tenore di vita molto vicino a quello di un disoccupato. Sono quasi 100mila i lavoratori calabresi a bassa retribuzione e i giovani mostrano una probabilità circa tre volte superiore a quella degli adulti di percepire un basso salario. La stessa Caritas fa emergere il paradosso che in Italia per arginare la povertà si spende, in termini di servizi, più nelle regioni dove il fenomeno è più lieve rispetto alle regioni dove l’indigenza tocca alte cifre. Ciò che sta succedendo in Italia (e non solo) ci sta ad indicare un concetto semplice che si è dimenticato: chi governa ha il compito di predisporre soluzioni assumendosene le responsabilità. Il cercare di salvarsi in angolo nascondendosi dietro la parola “crisi” oppure “la colpa è di chi mi ha preceduto”, è solo l’ennesimo tentativo (purtroppo diffuso più al Sud) di una classe politica che si è dimostrata incapace progettare e programmare azioni positive e distante dai bisogni della popolazione che si dovrebbe rappresentare. La realtà è che in Calabria si sono estese le aree sociali di implosivo ed esplosivo disagio che hanno fatto emergere zone di preoccupante vulnerabilità sociale, accompagnate da tassi di incertezza e insicurezza senza precedenti. Anche il lavoro per lungo tempo considerato fonte di certezze e stabilità, è diventato sempre più atipico ed ha contribuito a mutare la rappresentazione del futuro all’insegna della precarietà. La Calabria conta nel 2010 in media 573mila occupati, 13mila in meno rispetto al 2009 e i dati del 2011 confermano questo trend negativo. Secondo Eurispes Calabria il 54,7 % dei giovani occupati sono precari e, fra di loro, 65.000 si dichiarano disponibili a lasciare la Calabria per cercare lavoro; un numero enorme che si aggiunge ai 70.000 studenti universitari che già risiedono fuori dalla regione; un capitale umano che rischia di non trovare in Calabria una propria collocazione ed un futuro. Il rapporto Svimez sottolinea l’aumento dei giovani “Neet” (Not in education, employment or training) con alto livello di istruzione. Quasi un terzo dei diplomati ed oltre il 30% dei laureati meridionali under 34 non lavora e non studia. Uno spreco di talenti inaccettabile. La Calabria e in particolare i giovani calabresi continuano ad essere penalizzati ed esclusi dal mondo del lavoro che non esiste, nonostante le loro competenze, se non a proclami di investimenti e politiche fantasma. Infine alcune considerazioni sul fenomeno del lavoro minorile. La Commissione farebbe bene a non limitarsi alla percezione del fenomeno. Cito solo un dato di una ricerca regionale da poco conclusa. Su oltre 73mila giovani calabresi tra i 15 ed i 17 anni ben 26 mila, che rappresenta il 35% della popolazione in età dichiara di aver svolto una qualche attività lavorativa durante gli anni di studio, con una presenza quasi doppia dei ragazzi rispetto alle ragazze. E’ una cifra molto consistente che conferma, in percentuale e in valore assoluto, l’esistenza di un fenomeno che occorrerebbe monitorare in profondità, un avviamento al lavoro che si attiva attraverso canali e con modalità tutte da scoprire. Riuscire a far emergere tali modalità, significherebbe poter predisporre strumenti e percorsi validi non per reprimere un fenomeno che rischierebbe di riproporsi in altro modo, ma per creare presupposti atti a migliorare condizioni e prospettive dei ragazzi stessi. Per fare tutto ciò serve la buona politica fatta da politici di buona volontà e competenti.

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