Ramin Bahrami
5 minuti per la letturaRITROVARE il respiro della musica in quest’estate comunque Altra, diversa e figlia di quel fulmine a ciel sereno che è la pandemia da coronavirus significa anche ritrovare il tesoro delle emozioni che le note da sempre sanno dare. Così, per questa puntata de “L’Altra estate” lasciamo il drive in virtuale e incontriamo il pianista persiano Ramin Bahrami. I riflettori su di lui si accenderanno mercoledì 12 agosto alle 22 al parco Scolacium a Roccelletta di Borgia per il battesimo della ventesima edizione di Armonie d’Arte festival ideato e diretto da Chiara Giordano. Lo spettacolo “Occidente da Oriente – Nuove e antiche rotte lungo terre e mari di mezzo” vedrà in scena Bahrami e l’attore Francesco Colella. Si tratta di una produzione originale del Festival con testi persiani e greci a cura di Armando Vitale. La proposta tra l’altro è inserita nell’“Estate all’italiana festival”, voluto da Italia Festival con il Ministero degli Esteri che include una piattaforma digitale dedicata. L’evento sarà così visibile in mondovisione, in oltre 200 paesi, in streaming, in diretta e in differita.
Maestro Bahrami lo spettacolo proposto per Armonie d’arte si chiama “Occidente da Oriente”. Nel titolo il senso di una narrazione musicale e di parola tra due mondi diversi. Musica e parole per costruire anche il mondo che verrà?
«Assolutamente sì, ma la cosa incredibile è che la Mesopotamia è la progenitrice dell’Occidente. Io parlo della mia Persia che ha influenzato molto la cultura greca e romana e quindi poi quella occidentale. Oggi viviamo in un mondo di divisioni, con questo spettacolo, invece, creiamo un ponte ideale verso il mondo che verrà. Mio nonno era un grande archeologo e mi ha inculcato questi legami tra le nostre lingue, culture e musiche che racconteremo insieme all’attore Francesco Colella, tra testi persiani, greci, occidentali, per Armonie d’Arte Festival al Parco Nazionale Archeologico di Scolacium. Sono felice di far parte del progetto Armonie d’Arte Festival, diretto da Chiara Giordano, della quale condivido la visione basata su etica ed estetica e il sottotitolo permanente che parte da quest’anno “Nuove rotte mediterranee”. Un consiglio per il pubblico? Quando verrete al mio spettacolo, arrivati digiuni di cibo e di sapere. Sarete catapultati nelle rovine musicali e artistiche e farete un viaggio di seimila anni fa che vi sazierà enormemente…».
Chi è Johann Sebastian Bach per Ramin Bahrami?
«È la reincarnazione del divino, il quinto evangelista, il compositore più perfetto di tutti i tempi, ma anche un maestro di vita, di bellezza, di interazione culturale e un viaggiatore sempre entusiasta di tutti i stilemi umani».
Lei ha studiato anche con Piero Rattalino al Conservatorio “Giuseppe Verdi” di Milano, che ricordo ha di quegli anni e cos’è per lei l’Italia?
«L’Italia è il paese più bello del mondo che ha concentrato, malgrado la sua geografia – non ha una grandissima estensione – il più alto livello di cultura nel suo territorio. È la nazione più artistica che io conosca e va salvaguardata, tutelata e ricordata. La musica e l’alfabeto musicale sono nati in Italia. Ricordo con enorme affetto i miei anni a Milano. Piero Rattalino è il mio padre musicale, mi ha aperto il cervello. Quel periodo al Conservatorio è stato per me altamente formativo e significativo. Ho avuto come direttore anche il Maestro Marcello Abbado che è stato mio mentore, nonché grande amico».
L’abbiamo vista in concerto a Umbria jazz con Danilo Rea e sempre a proposito di jazz lei ha affermato che «Il più grande jazzista è J.S. Bach»… Cos’è la libertà in musica e quanto contano le contaminazione dei linguaggi artistici?
«A Lipsia, vi è una famosa sala da concerto, è un tempio del suono dove vi è una scritta in latino, “res severa verum gaudium”, che vuol dire che “la vera gioia sta nelle regole”. Bach è il più grande jazzista perché possiede la libertà d’animo ma anche la rigidità che hanno avuto i più grandi come Michel Petrucciani e che possiede Keith Jarrett. In Danilo Rea ho trovato un fratello in musica. È il jazzista più raffinato dal punto di vista della concezione del suono, più vicino alla musica classica».
Il Coronavirus quest’anno ha dettato tempi e modi di un’Altra estate anche per il mondo della musica: cosa vuol dire ripartire?
«Significa riprendere a vivere, ad avere fiducia nella vita. Dobbiamo riacquisire la Cultura con la C maiuscola e, per questo, deve intervenire chi ci governa. Dobbiamo ritornare alla funzione pura della musica che merita di essere consumata, vissuta da migliaia di persone in sicurezza. Il virtuale non deve prendere il sopravvento. Gli artisti hanno bisogno del calore del pubblico e viceversa».
Cosa le ha insegnato, se lo ha fatto, l’esperienza del lockdown?
«Ho capito che siamo molto vulnerabili e siamo più piccoli di un virus. Facciamo parte di un sistema più grande di noi che non conosciamo. Ho compreso di quanto io sia un animale sociale. È una balla che gli artisti vivono bene da soli, nessuno vive bene da solo. Una cosa positiva del lockdown è che sono riuscito a finire la scrittura di un libro sulla storia della musica persiana che tardavo a concludere e, finalmente, uscirà in autunno. Mi è mancato, però, non poter vedere i miei figli e non poter viaggiare».
Come si definisce oggi Ramin Bahrami?
«A 43 anni mi considerato un soldato della musica, fedele a Bach, che considero il più grande compositore, ma suono anche Chopin. Sono una persona entusiasta, insopportabile, difficile ma anche facile, dipende dai punti di vista. Adoro e credo molto in quello che faccio, amo l’arte e ho bisogno degli altri per completarmi».
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