4 minuti per la lettura
Bisognava solo mettersi d’accordo sul prezzo; Orsola Fallara era stata ricattata ed i suoi aguzzini, o almeno parte di essi, hanno già un nome. C’è un poliziotto, un faccendiere e una donna. Personaggi “strani” che, molto probabilmente, non lavoravano neppure in proprio. Gli inquirenti in questo senso hanno trovato dei precedenti inquietanti. Stesso metodo, stessa prassi e in alcuni casi uguali protagonisti, sempre pronti a chiedere soldi, ad alzare cortine fumogene ed avvelenare inchieste creando scompiglio con falsi provvedimenti giudiziari. E ora, il sospetto è che a Reggio per alcuni anni ci sia stata una vera e propria centrale per depistare e ricattare personaggi più o meno noti, più o meno scomodi.
La lettera sarebbe stata recapitata nei primi giorni di aprile del 2008 a casa di Paolo Fallara, fratello di Orsola. Niente timbro postale né francobollo, segno che la missiva è stata messa direttamente nella cassetta della posta. Nella busta pochi fogli; il frontestipizio di un mandato di arresto e nove nomi. Otto sono coperti con il bianchetto, l’ultimo è quella della dirigente del settore finanze del comune di Reggio Calabria. Nel secondo foglio c’è l’ultima pagina dello stesso provvedimento. Altre due pagine contengono la motivazione. Gli anonimi interlocutori spiegano che quella è, appunto, un’ordinanza di custodia cautelare in carcere da eseguire nelle settimane successive. Scrivono che sono in grado di fornire il resto del materiale (l’intero fascicolo) e di far sapere per tempo la data dell’operazione. Poi avvertono che l’affare avrà un prezzo e invitano la Fallara a starsene zitta in attesa di istruzioni. In una passaggio c’è poi un riferimento ai nomi coperti. Si tratta, secondo quello che scrive l’anonimo, di personaggi importanti. L’inchiesta infatti è destinata a creare scalpore, a far tremare i palazzi, i giornali insomma ne avrebbero parlato per mesi. E csoì Paolo Fallara, avverte la sorella e assieme decidono immediatamente di sporgere denuncia ai carabinieri del Comando provinciale. Si scopre così che non esiste alcun mandato nei confronti della dirigente comunale e che è tutto falso. Nelle settimane successive altre lettere, telefonate e ci messaggi che arrivano sui telefonini delle vittime. Fin quando, al termine di una lunga trattativa, si stabilisce un prezzo. Cinquantamila euro da lasciare in una busta in una zona dell’Aspromonte, ai piedi di un albero vicino ad una croce. Il denaro viene abbandonato nel luogo indicato, tenuto in stretta osservazione dai carabinieri che se ne stanno acquattati attorno alla zona. Passano pochi giorni e una notte arriva un’auto con due uomini a bordo. Quando gli sconosciuti si trovano a pochi metri dal denaro scatta la trappola. I carabinieri saltano fuori e bloccano gli esattori; uno di loro è un poliziotto della questura di Reggio Calabria. L’altro è un faccendiere, un tipo strano. Il poliziotto fornisce la sua versione dei fatti dicendo di non sapere nulla di buste e di soldi, ma di essersi recato nel cuore della notte in quel luogo per incontrare un latitante. L’uomo che è con lui sarebbe il suo gancio nell’operazione. Un confidente. La storia però non trova riscontro ei superiori del poliziotto non ne sanno nulla.
Scattano poi alcune perquisizioni e vengono scoperti timbri e carte utili per falsificare provvedimenti giudiziari e informative. Il timbro è quello di un magistrato reggino. Da ulteriori accertamenti affiora anche il ruolo della donna che avrebbe acquistato telefonini e schede (intestate a persone inesistenti) utilizzate per la trattativa.
Infine, scavando negli archivi i pm della Dda hanno anche scoperto che episodi del genere sono già accaduti, almeno due. Il primo riguarda una lettera mandata ai familiari di alcuni degli imputati al processo sul delitto di Franco Fortugno. Durante un’udienza uno dei difensori si alzò sbandierando una missiva nella quale si faceva riferimento a una informativa nella quale si sarebbe dimostrato che il processo era stato costruito per incastrare alcuni imputati e che, di conseguenza, alcune prove erano state falsificate. Tesi smontata nel giro di poche ore, visto che a risultare falsa era stata proprio l’informativa richiamata dal legale. In quel caso l’episodio fu classificato come un tentativo di depistaggio, ben costruito, ma fallito.
Un secondo episodio riguarda il coinvolgimento di un giornalista di un’importante testata. A lui era stato proposto, sempre in cambio di soldi, uno scoop. Denaro per ottenere carte e intercettazioni inedite e scottanti. Ovviamente false.
L’inchiesta sarebbe chiusa da qualche settimana; il poliziotto è stato trasferito ad altro incarico ed altra sede. I magistrati stanno valutando le accuse da contestare. C’è certamente la truffa e la falsificazione di atti giudiziari. Ora si capisce anche a cosa si riferiva Orsola Fallara nella sua ultima tragica conferenza stampa. La dirigente aveva fatto accenno a questa vicenda il pomeriggio che aveva preceduto di poche ore il suo drammatico suicidio. Era stata lei stessa infatti a dire che contro di lei c’era stato un tentativo di estorsione.
COPYRIGHT
Il Quotidiano del Sud © - RIPRODUZIONE RISERVATA