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LA storia di Fatima è simile a quella di tante altre donne che in Italia, dal continente africano, ci arrivano inseguendo una vita migliore. La storia di Fatima è come quella di tante altre donne che, dopo quel viaggio di belle speranze infrante sulle carrette del mare, finiscono in strada. Poi la sua storia si interrompe e riparte, diventando un caso unico. Perché non accade spesso che donne come Fatima riescano a ottenere il permesso di soggiorno, dopo che Questura e ministero degli Interni hanno già avviato le procedure di rimpatrio.
Il Tar di Basilicata, con una sentenza che forse farà scuola, ha concesso a Fatima la possibilità di una nuova vita, riconoscendole il diritto a restare nel Paese per motivi di protezione sociale. E non importa, dicono i giudici, che la collaborazione della donna non sia stata utile a sgominare una banda di sfruttatori. Non si può applicare lo stesso principio di “premialità” che vale per i pentiti di mafia. Per il solo fatto di essere stata una vittima, il Tar ha concesso a Fatima quel permesso che lo Stato, in un primo momento, le aveva negato.
Fatima ha poco più di 25 anni quando in Nigeria viene avvicinata da un conoscente che le propone un impiego in Libia. Raccoglie qualche indumento e sale sul retro di un camion, stipata con altri trenta connazionali. Non tutti sopravvivono a quell’inferno di caldo e polvere. Ma Fatima no, resiste. Resiste anche alla perquisizione di chi aveva organizzato il viaggio. «Volevano i soldi», li volevano tutti. Comincia così il racconto che nel 2009 Fatima farà agli agenti della Questura di Potenza, denunciando la sua storia di sfruttamento.
La donna, in Libia, resta poche settimane. Arriva presto il momento di partire ancora, alla volta dell’Italia. Sono più di cento su quel barcone che resterà in balia nel Mediterraneo almeno tre giorni, prima di franare sulla spiaggia di Lampedusa. Dal centro di accoglienza comincia a peregrinare per le regioni del Sud, fino all’incontro con una connazionale, a cui si affida per avere un riparo. In Calabria troverà lo sfruttamento, la prostituzione come risarcimento del posto letto, le botte quando non le va di scendere in strada. Fino all’incontro con una italiana che l’accompagnerà in una casa famiglia di Rossano. Da lì, per allontanarsi ancora di più dalle persone che l’hanno resa vittima, Fatima viene trasferita prima nel centro “Aurora”, nel Potentino, poi in quello di Trani, gestito da una cooperativa del posto. E’ durante la sua permanenza in Basilicata che Fatima sporge denuncia contro i suoi sfruttatori.
In Puglia, nella sua nuova dimora, comincia un percorso di sostegno psicologico, segue laboratori, corsi di lingua, si dà da fare, si integra perfettamente. Chiede così il permesso di soggiorno alla Questura di Potenza, perché è lì che ha sporto denuncia; ma la richiesta viene respinta.
Da Trani, Fatima fa ricorso. E il Tar le dà ragione: il permesso di soggiorno per finalità sociali «non ha valore premiale di un contributo dato al corso delle indagini di polizia giudiziaria, perseguite in sede penale». Piuttosto, il fine è dare «immediata protezione ad una parte considerata debole», per potersi sottrarre «alla violenza ed ai condizionamenti di organizzazioni criminali, e partecipare ad un programma di integrazione sociale». Il collegio dei giudici accoglie le motivazioni proposte dai legali della donna, Loredana Liso e Giuseppe Vendegna (che con l’associazione di promozione sociale Zer0971 si occupa spesso di assistenza ai migranti): non basta – dicono i giudici – il parere negativo «privo di valutazioni di merito» della procura competente (in questo caso lo sfruttamento si è verificato in Calabria), ma l’autorità di pubblica sicurezza avrebbe dovuto «esternare le ragioni ostative al rilascio del permesso». Non c’è, insomma, bisogno di attendere l’esito di un eventuale processo per i reati denunciati, soprattutto se, come nel caso di Fatima, l’indagine non è stata archiviata e, dunque, ritenuta fondata. «La vera novità di questa pronuncia – dice Vendegna – sta nel principio di tutela inequivocabile per la vittima. Non capita spesso che vengano ribaltate decisioni prese da organismi come questura o ministero. Ha “vinto”, invece, la rete di protezione e solidarietà dal basso, costruita dalle associazioni, dalle cooperative di accoglienza, dai mille volontari che quotidianamente si occupano di queste vittime». Consegnando loro un po’ di sana speranza.

Sara Lorusso

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