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In fondo, il viaggio rappresenta la nostra stessa essenza di uomini e donne del mondo. Che sia un viaggio a piedi o con qualsiasi altro mezzo di trasporto, che lo facciamo per sport o per vacanze, per motivi religiosi o per mangiare, abbiamo dentro codici genetici che ci fanno scattare dosi di felicità quando al centro dei nostri pensieri c’è un viaggio.
Sembra una parola semplice, unica, inequivocabile; eppure questo suono, viaggio, è molto più complesso di quanto non sembri a prima vista e assai difficilmente rappresentabile in maniera chiara e univoca.
In un certo senso, il viaggio è una dimensione della libertà: non una libertà teorica quale è quella che alberga in ogni essere vivente dotato di fantasia, ma una libertà reale. La libertà di poter progettare e realizzare uno spostamento fisico di sé, per un incontro di luoghi, gente e culture a volte molto diverse.
Il viaggio ha sempre colpito la fantasia di molti e catturato l’attenzione di differenti tipologie di scienziati: gli studiosi hanno anche sottolineato le differenze che esistono tra diversi tipi di viaggio, ponendo le basi per due teorie, sull’autenticità e sull’inautenticità del viaggio. Il turismo di massa, giudicato alla stregua di una vera e propria standardizzazione culturale, in quanto destinato a semplici consumatori, produrrebbe quella che viene definita esperienza inautentica; all’opposto, il distacco dalla quotidianità determinerebbe un’esperienza autentica, con una attribuzione di importanza al vissuto soggettivo, e con l’insieme di sperimentazioni connesse al suo itinerario.
Ho avuto la fortuna di poter girare abbastanza il mondo nella mia vita. Vacanze o attività professionali mi hanno dato la possibilità di moltissimi viaggi, esperienze uniche e irripetibili ogni volta. Il fascino del viaggio, della preparazione prima e della realizzazione poi, l’ho scoperto molto presto grazie a mia madre e mio padre. Era il 1964, anni felici e spensierati, e mio padre aveva acquistato la sua prima auto, un maggiolino Volkswagen bianco di cui ricordo ancora perfettamente la targa (mentre ho sistematicamente dimenticato tutte quelle delle mie auto che si sono succedute negli anni a venire).
Andare in giro per l’Europa, maggiolino, tende, campeggi, da Bari ad Amsterdam, e poi Bonn, Colonia, la foresta nera…. Che viaggi… sono passati 55 anni eppure ho nitido il ricordo di molti luoghi, piazze, gente conosciuta, di semplici incontri lungo la strada lunghissima che attraversava tutta l’Europa.
Questa estate, invece, tutti in Italia. Il Covid19 ci ha costretto a ripensare ai nostri spostamenti, e per chi come me è abituato spesso a lunghi viaggi la fatica di non potersi muovere è tanta…
Pensare che solo 7-8 mesi fa, tra la seconda metà di novembre e l’inizio di dicembre, sono partito da Lamezia e ho volato su Roma, Pechino, Auckland per poi intraprendere un tortuoso ma entusiasmante viaggio di ritorno con tappe programmate a Brisbane, Taipei, Hanoi, Yangon e poi, sempre via Pechino il rientro a Roma e infine a Lamezia… Un caleidoscopio di gente, musiche, colori, profumi, cibi, sensazioni, idee, passioni, spostamenti. Gli aerei ti danno oggi la possibilità di volare dall’altra parte del mondo in un tempo tutto sommato ragionevole. Sono cambiate rapidamente le cose da questo punto di vista. Ci penso, mentre qui, dalla mia terrazza vista mare, passo in rassegna i miei tanti viaggi…
Mi torna in mente la mia prima volta in aereo… era il 1978, avevo ventiquattro anni e molte speranze. Mi ero già laureato due anni prima e mi ero iscritto ad un corso post-laurea alla Essex University, in Inghilterra. Per le cose che studiavo, una specie di tempio del sapere in quel periodo, in cui ho avuto la fortuna di conoscere gente che proveniva da ogni parte del mondo, Calabria inclusa: ho incontrato lì, tra gli altri, il catanzarese Giovanni Anania, che sarebbe poi diventato uno stimatissimo professore all’Unical di Cosenza.
Organizzare il tutto era molto, molto più complicato (per i più giovani, provate a immaginare: no Internet, no cellulari, no email, no bancomat, no trolley… era un mondo diverso insomma…). E poi, finalmente, è arrivato il momento di partire. Un viaggio, nel senso letterale della parola. Voglio ripercorrerlo con voi, perché serve a capire la grande voglia di muoversi che pervade le menti di molte e molti di noi…
Dunque parto da Trento, che era il posto dove vivevo all’epoca. Devo andare a Colchester, graziosa cittadina nell’Essex, una regione a Nord-Est di Londra, sede appunto della mia nuova scelta universitaria. E allora, partiamo…. Volare in aereo in quegli anni era ancora ritenuta una cosa d’élite, e quindi era abbastanza caro; ovviamente per risparmiare scoviamo una low cost, una delle prime, la Monarch Airlines, che collega Milano a Londra (circa).
Il primo pezzo di viaggio in treno, da Trento a Verona; cambio e via verso Milano centrale. Il mio primo volo partiva da Malpensa, che allora era un piccolo aeroporto periferico rispetto al più centrale e importante Aeroporto di Linate. Quindi spostamento dalla stazione centrale di Milano a quella di Porta Garibaldi, per prendere un autobus che in un’oretta e mezza ci porta all’aeroporto della Malpensa. Per la prima volta faccio le operazioni che avrei poi ripetuto innumerevoli volte nella mia vita: la fila al check in, i bagagli, i controlli dei documenti, il gate e finalmente arriva il momento della chiamata. Volo Monarch Airlines da Milano Malpensa a London Luton. Non ricordo che tipo di aereo fosse, ma ricordo perfettamente che la lotteria dei posti – non si potevano scegliere allora, neanche pagando – mi aveva assegnato un sedile esattamente a centro aereo, all’altezza delle ali. Ricordo anche che non era male come posto, c’era un discreto spazio per le gambe dovuto anche ad una singolare disposizione delle due file centrali che erano una di fronte all’altra, come in un ipotetico salottino. Come su un frecciarossa oggi, insomma, ci si poteva guardare in faccia. Ricordo che il mio posto era nel senso di marcia dell’aereo, e lo ricordo bene perché, mentre ero tutto preso dallo studiare cinture di sicurezza e vano portabagagli – in fondo era la prima volta che salivo su un aereo…– una ragazzina che era seduta esattamente difronte a me, avrà avuto non più di 13/14 anni, mi rivolge la parola e mi chiede: «Scusi, posso chiederle di scambiare il suo posto con il mio, perché a me, di solito, viaggiare con le spalle al senso di marcia crea qualche problema».
Acconsento, ovviamente, senza neanche sapere se magari lo stesso effetto lo farà a me, neofita totale dei voli aerei. Ma non si discute neanche e di fronte ad una richiesta così si dice di sì. Poi, seduto, torno a guardare la ragazzina e mi tornano in mente le sue parole: “…di solito…” e allora penso: ma quante volte ha già viaggiato alla sua età? “di solito”, mah… avrà voluto trovare una scusa magari?
Fa lo stesso. Si parte, il decollo è da brividi sempre, e una volta in quota si spegne la luce dell’obbligo delle cinture e quella del divieto di fumo. Vi ricordo che siamo in un’altra era. Lo so, non si dovrebbe, ma mezzo aereo si accende una sigaretta forse anche come atto liberatorio per la tensione del decollo. Si può ancora fumare durante il volo (incredibile ma vero).
Poi un paio d’ore dopo siamo a Luton, piccolo aeroporto a Nord di Londra (ah!.. le low cost…) e anche da lì autobus per la città.
Esattamente per Victoria Station, cuore pulsante dei trasporti londinesi. Viaggio finito? Macché. Da Victoria Station, metropolitana fino a Liverpool Street Station, perché è da quella stazione che partono i treni per l’Essex.
Mi pare di rivedere ancora oggi la campagna inglese dai finestrini, la stazione intermedia di Chelmsford annunciata dall’avviso audio nel treno con quell’impronunciabile inflessione britannica, e poi finalmente l’arrivo a Colchester. Ultimo sforzo: un autobus dalla stazione al Campus, che si trova fuori città, immerso nel verde. Ecco. Destinazione raggiunta. Il mio primo volo.
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