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di OTTAVIO ROSSANI
Ora che in pratica in Libia ha vinto la rivoluzione contro Gheddafi, sono cominciate le grandi manovre da parte di Francia, Inghilterra, Usa e ovviamente Italia, per ricollocarsi nello scacchiere degli accordi commerciali. Logico, inevitabile. Su questo è doveroso fare una riflessione, assolutamente non emozionale. Premesso che bisogna essere contenti dell’esito della rivolta che anche in Libia, sia pure in modo diverso, è uno dei tanti volti della cosiddetta “primavera araba” (risveglio nei paesi arabi del medio Oriente conto i vari dittatori: Egitto, Tunisia, Siria, perfino Marocco dove però il re si sta dimostrando lungimirante e sta riformando lo Stato anticipando eventuali proteste), ricordiamo che di questa rivolta si sono approfittati paesi come Francia e Inghilterra con l’obbiettivo di scalzare l’influenza dell’Italia. Berlusconi non ha saputo anticipare la mossa di Sarkozy motivata da necessità elettorali e anche da una rediviva politica di “grandeur”. Da molto tempo la Francia inseguiva l’ambizione di sostituirsi all’Italia nei rapporti economici privilegiati. L’Eni è la compagnia petrolifera che ormai dai tempi di Mattei si era conquistato uno spazio preminente nello scambio petrolio/servizi. Il presidente Eni, Scaroni, in questi giorni ha chiarito che la società è pronta a riprendere e consolidare i contratti firmati con Gheddafi. Un dittatore prima o poi cade. È la storia di sempre: la parabola di un dittatore in genere dura circa un ventennio. Può accadere che duri trenta o quaranta come Salazar, Franco e appunto Gheddafi (con la complicità di Stati ai quali conviene). Ma prima o poi i cittadini si ribellano e cambiano con la guerra civile o pacificamente (la “rivoluzione dei garofani” in Portogallo) il sistema. L’augurio è che ora nei Paesi “ribelli” dell’anello Mediterraneo subentrino sistemi di democrazia a quelli dittatoriali abbattuti. La speranza è poca, ma c’è. Ma la questione è che cosa potrà accadere? Ogni Paese interessato vorrà imporre la propria leadership negli affari economici. Non c’è solo il petrolio di mezzo, ma tutti gli affari che si profilano per la ricostruzione (strade, forniture, aeroporti, eccetera). Insomma, il neocolonialismo si presenta sotto molte facce, ma di questo si tratta. D’altronde è inevitabile. Forse non c’è alcun altro rimedio in un mondo in cui il valore principale è il profitto e mai la collaborazione tra i popoli. E le guerre, del resto, non nascono tutte da motivi economici, cioè dalla presunzione che si possano occupare territori, si possono esigere servizi e pedaggi, usando la forza? Gli Stati si comportano come si comporta un qualsiasi delinquente o un mafioso. L’Italia nella questione libica ha avuto un atteggiamento attendista, non per bontà, ma per calcolo del minimo danno. Il Governo Berlusconi aveva stipulato accordi di vasta portata con la Libia. Aveva concesso a Gheddafi perfino l’arroganza di venire in visita ufficiale, dormire in tenda ed esibire segni di sprezzo nei confronti dell’Italia. Ricordate l’eccesso delle sue prediche coraniche contro l’Occidente e l’Italia fatte a Roma nel 2009 davanti a una platea di 500 donne che il ministero degli Esteri era stato costretto a procurargli? Ecco, sono cose che bisogna sempre ricordare per capire la dinamica dei cambiamenti. Berlusconi è stato titubante nell’intervenire a sostegno dei ribelli, quando la Francia ha spinto sull’acceleratore e avrebbe voluto anche mandare spedizioni via terra per occupare il territorio. La risoluzione Onu ha vietato interventi di terra. Solo raid aerei a sostegno dei rivoltosi. Forse l’atteggiamento attendista dell’Italia si rivela oggi addirittura vantaggioso. Ma ora deve impedire che la Francia mandi i suoi uomini per operazioni di terra, che significano “occupazione”. In ogni caso la presenza dell’intelligence italiana è stata sin dall’inizio discreta ma forte. Sono questi tecnici con vestiti civili che si sono rivelati decisivi nella formazione dei gruppi militari ribelli, nell’aiuto per l’organizzazione dei nuovi poteri alternativi a Gheddafi. C’è da dire però che il presidente del Cnt (Comitato nazionale di transizione) ha avuto il primo contatto diplomatico con Sarkozy, perché lo considera più deciso nell’aiuto al governo provvisorio della Libia. Berlusconi è stato il secondo appuntamento di Jibril a Milano e ha deciso lo sblocco della prima tranche di 350 milioni di euro dei depositi libici congelati nelle banche. Insomma, l’Italia viene dopo. Forse non è giusto, ma la diplomazia italiana forse non sa fare di più. Dobbiamo prendere atto. *** MONTEZEMOLO ENTRA IN POLITICA? Luca di Montezemolo potrebbe entrare in politica. Sono anni che se ne parla. I suoi interventi sulla deriva politica italiana attraverso la Fondazione Italia Futura, che ha stilato i dieci punti che fanno il bilancio della situazione e compendiano le proposte per uscire dalla crisi. In sostanza, Montezemolo sostiene che il Governo dovrebbe ridurre il debito pubblico, ridurre i costi di gestione delle istituzioni e degli organismi per la funzionalità politica, tagliare un certo numero di vincoli che frenano le imprese. Insomma, lo Stato faccia la sua parte eliminando i blocchi allo sviluppo e alla razionalizzazione dei costi della politica, e poi potrà chiedere anche il contributo dei cittadini. Montezemolo è contrario al “ contributo di solidarietà” perché andrebbe a gravare sulle fasce di cittadini che già pagano le tasse puntualmente, anche salate, mentre sarebbe favorevole alla tassazione straordinaria dei ricchi, in soldoni la proposta è che si introduca un prelievo dello 0,5 per cento (non una tantum, ma stabile) sui patrimoni superiori ai 10 milioni di euro, attraverso l’autocertificazione che potrebbe anche favorire il recupero di forti evasioni fiscali. Da “Cortina Incontra” dove Montezemolo ha partecipato a un dibattito ha lanciato questa specie di “manifesto” per una nuova politica, più giusta, più responsabile. Propone di vendere tutto ciò che appartiene allo Stato: dalla Rai alle Poste, dalle municipalizzate agli immobili pubblici. Inoltre: contratto di lavoro unico a tempo indeterminato ma libertà per le aziende di licenziare per ristrutturazioni o riorganizzazioni e per motivi economici, con l’introduzione di nuovi contributi di disoccupazione; aumento dell’Iva se si riduce l’Irap; abolire le pensioni di vecchiaia, tranne che per i lavori usuranti; intensificare la lotta all’evasione e destinare tali proventi alla riduzione delle aliquote; dimezzare il numero dei parlamentari. (Leggere l’intervista fatta da Umberto Brindani sul settimanale “Oggi”, n. 35 del 31 agosto). Solo su due proposte non sono d’accordo. 1) il licenziamento libero; il mercato del lavoro va completamente rivisto: ci potrebbe essere il libero licenziamento, se si inventassero nuovi sistemi di garanzia per il lavoro che è un diritto sancito dalla costituzione; 2) la vendita di tutte le proprietà dello Stato; questa soluzione l’ abbiamo vista e non funziona (che fine ha fatto l’Alfa Romeo?) Non sarebbe meglio far funzionare le aziende statali o partecipate come fossero private? Sono convinto che non è difficile farle funzionare se solo si volesse. Quindi si tratta sempre di “volontà politica”, come per la lotta alla mafia, la lotta all’evasione. Forse si dovrebbe introdurre la “lotta al lavativismo di Stato” e farla sul serio. Utopia? Prima proviamo. Infine, una raccomandazione a Montezemolo: non entri in politica. L’Italia ha già avuto abbastanza, in termini di incertezze e guai, da un altro imprenditore entrato in politica. I bravi imprenditori devono continuare a fare il loro lavoro, utile a se stessi e al Paese. E poi, Montezemolo ha dimenticato una cosa: bisognerebbe per prima cosa che il Parlamento risolvesse il “conflitto d’interesse”. Solo allora un imprenditore potrebbe dedicarsi al bene del Paese senza incorrere nel sospetto che vada a Roma per risolvere solo i propri problemi.
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