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di VITTORIO CAPPELLI
È scoppiata sul “Quotidiano” una polemica vivace e spumeggiante, un gran fuoco d’artificio,sull’ “Aspra Calabria” di Giorgio Bocca e sulla presentazione scritta appositamente da Eugenio Scalfari per la nuova edizione Rubbettino di questo testo, tanto forte e seducente quanto, per molti, difficile da digerire. C’era forse da aspettarselo che questa pubblicazione non sarebbe passata sotto silenzio. Ma il dibattito mi ha preso un po’ alla sprovvista, alle prese come sono con le valigie per un lungo viaggio in Brasile, dove si organizzano convegni e simposi per sapere cosa si pensa in Italia degli emigranti e dei viaggiatori italiani, che hanno scelto quel paese-continente per conoscerlo o per lavorarci e vivere. Dopo un po’ ho pensato, però, che le due cose non sono poi così distanti tra loro. Rubbettino ha avuto a suo tempo la bontà di affidarmi la direzione della collana “Viaggio in Calabria”, in cui compare ora il testo di Bocca, ultimo nato dopo altri ventuno titoli che hanno visto la luce in soli tre anni, durante i quali ho frequentato gli sguardi e le acutezze, le emozioni e le intelligenze dei viaggiatori, come le loro diffidenze, gli stereotipi e i pregiudizi, che si sono spesso intrecciati e confusi nelle stesse persone che hanno visitato la Calabria dal Settecento fino all’altro ieri. Ora mi ritrovo alle prese con altri viaggi, più o meno deliberati, più o meno provvisori o definitivi, più o meno dolorosi o gratificanti, cui hanno dato vita per almeno cent’anni i calabresi e i lucani, come i veneti e i trentini. In entrambi i casi, un passaggio cruciale è costituito dalla relazione complessa tra il dentro e il fuori, il qui e l’altrove, il noi e l’altro. In Brasile, la rappresentazione degli italiani, malgrado la persistente forza evocativa di stereotipi quali la tarantella, la pizza e la polenta, la “capatosta” calabrese e la canora allegria napoletana, risulta in realtà molto ricca e variegata nel tempo e nello spazio, dunque irriducibile ad una immagine coerente ed uniforme. E’ semmai la cultura italiana a mostrarsi più sbrigativa e superficiale, tranne rare eccezioni, nel rappresentare il Brasile e i brasiliani, rimarcando distanza e distrazione rispetto agli stessi viaggiatori e ai migranti italiani che hanno invece prediletto il Brasile. Nel caso del viaggio in Calabria, ora torna drammaticamente il problema del rapporto tra il noi e l’altro e si ripropongono le dibattute questioni identitarie. “Come qualsiasi altro luogo del mondo” – ha annotato efficacemente Mimmo Cersosimo – “non è facile spiegare e capire la Calabria senza viverci”. Per capire davvero, ha aggiunto poi, occorrono sia l’estraneità che la vicinanza, sia la freddezza che il calore. Sia la ragione che il sentimento, potremmo dire ancora, sia la condivisione che la presa di distanza. Solo così si può pensare di decifrare il mix micidiale di arcaico e post moderno della Calabria più recente (Cersosimo), la novità di territori locali globalizzati, non più leggibili in termini di arretratezza (Perna). Ecco, ho l’impressione che in questa discussione qualcuno non riesca a prendere le distanze. Che la reattività dell’orgoglio ferito impedisca di guardare dritto al cuore dei nostri mali e, ancor più, vieti la possibilità di sopportare la durezza dei giudizi altrui. Tutti gli intervenuti conoscono certamente la Calabria dall’interno e dunque a Bocca, ma anche a Scalfari, ribattono sottolineando la complessità della Calabria, richiamando i suoi dinamismi interni, sia in prospettiva storica che nella sua attuale articolazione sociale, e rammentando, infine, gli infiniti torti subiti. Ma così ho il timore che si corra il rischio di camminare su un crinale, da cui si può facilmente cadere in quell’eterno vittimismo autoreferenziale, che non è di sicuro la strada migliore per illuminare i nostri “mali oscuri”. Non voglio minimamente entrare nel merito della qualità e dei contenuti della vecchia inchiesta di Bocca e della nuova presentazione di Scalfari, né ho intenzione di esaminare gli interventi pubblicati finora su questo giornale, peraltro piuttosto diversi tra loro per toni e contenuti. Ma credo che non si possa assecondare chi taccia di “piemontese” Giorgio Bocca (e, forse per non farne un caso personale, anche Norberto Bobbio). Così facendo, finiamo diritti in braccio alle ottocentesche “briganteidi” di Nicola Misasi e ai novecenteschi “terroni” di Pino Aprile. E non ne abbiamo alcun bisogno. Con la collana “Viaggio in Calabria” ho cercato di seguire, col conforto e la determinazione dell’editore, altri percorsi, collazionando il meglio della letteratura di viaggio che ha riguardato la Calabria negli ultimi tre secoli. L’obiettivo è quello di comporre un mosaico di voci e di sguardi esterni (stranieri ma anche peninsulari) con cui misurarci senza compiacimenti e senza vittimismi, anche per affinare l’autopercezione e l’autorappresentazione degli stessi calabresi. Giacché gli stereotipi e i luoghi comuni non appartengono solo a chi osserva dall’esterno ma anche a chi non riesce a pervenire ad una matura e libera autosservazione, che è la premessa ineludibile dell’autodeterminazione. A partire da queste convinzioni, abbiamo giustapposto autori classici del Grand Tour e viaggiatori contemporanei; autori francesi e tedeschi, americani e italiani; intellettuali, militari, scienziati e sportivi; viaggiatori e viaggiatrici. Abbiamo dato spazio a punti di vista divergenti e spesso eccentrici, da Cesare Lombroso ad Alberto Savinio, da Galanti a Bartels, da Custine a Lear. E in questa galleria, oltre ai citati Lombroso e Savinio, non pochi sono gli italiani del Nord, dal Trentino Carlantonio Pilati al milanese Luigi Vittorio Bertarelli e al piemontese Giorgio Bocca. La cui pubblicazione non è “un incidente culturale”, ma l’ultimo tassello (per ora) di un mosaico, al quale possiamo guardare come in un gioco di specchi policromi e multiformi, nei quali guardarci per affinare anche la comprensione di noi stessi. La discussione che si è aperta è uno stimolo ad andare avanti, dando ancora più spazio, com’era già nelle nostre intenzioni, al viaggio e ai viaggiatori del nostro tempo.

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