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di ALDO VARANO
Romano Pitaro è uno degli osservatori più intelligenti e acuti che bazzicano in Calabria. Del suo intervento, “Caro Scalfari ma voi dove avete toppato?” Pubblicato sul Quotidiano dell’8 luglio, condivido praticamente tutto. E tuttavia non è inutile aggiungere qualche rapida notazione anche perché questo è il tempo di andare oltre. Rubbettino, che ha accumulato molti meriti nell’organizzazione della cultura calabrese e nella scoperta delle sue radici, ha deciso di mandare in onda un libretto, “Aspra Calabria” che è il capitolo sulla nostra regione inserito nel volume L’Inferno di Bocca (traggo le citazioni dell’edizione dell’agosto del 1992). L’Inferno ebbe un grande successo e restò in cima alle classifiche per lunghissimo tempo. Fu un’operazione editoriale e culturale (al Nord si annusava il clima che poi segnerà il successo della Lega) che con centinaia di migliaia di copie scolpì nell’Italia di fine Novecento un’immagine del Mezzogiorno e della Calabria (ma il mio ragionamento è solo sulla Calabria) con cui ancora facciamo i conti. Quando uscì nel 1992, per anni la nostra regione era stata sulle prime pagine della grande stampa per l’Anonima sequestri e la guerra di ’ndrangheta a Reggio e provincia coi suoi mille morti. Fatti tragici e drammatici. Com’era stato possibile? Bocca non sciupò un solo rigo di “Aspra Calabria” per capire in quale baratro stava affondando la Calabria. Le responsabilità si materializzarono in un male oscuro destinato a restare tale. Il libro, per conseguenza, finì soprattutto per separare dalle responsabilità terribili e gigantesche dei calabresi (peraltro difficili da negare o sottovalutare) quelle del resto del paese e, in modo speciale, quelle dei poteri forti del Nord industriale e mediatico. Fu dopo di allora che un grande intellettuale italiano, Norberto Bobbio (piemontese come Bocca), scrisse: «Ormai la questione meridionale è diventata la questione dei meridionali». Ricordo un angosciato Giovannino Russo che mi rilasciò un’intervista per spiegare che lui non si sentiva tanto autorevole da polemizzare con Bobbio ma che comunque quell’esito, se accettato, avrebbe avuto conseguenze tragiche. Voleva dire il vecchio pubblicista-meridionalista che se la questione meridionale smetteva di essere una grande questione nazionale rispetto a cui mobilitare le energie del paese per diventare la tara antropologica dei meridionali si sarebbero create le condizioni per abbandonare le regioni del Sud a se stesse condannandole all’isolamento e alla sconfitta certi. E così sarebbe andata. E’ scritto bene L’Inferno. Bocca ha una straordinaria scrittura come molti tra quanti si preoccupano più del modo di raccontare che della fondatezza dei loro racconti. Il suo obiettivo è sempre lo stupefacente, l’emozione, l’indignazione, anche a costo di forzare la realtà o di tagliarne la complessità ricavandone idee semplici ed emotive. Bene e male, nero e bianco. E più il nero è nero, più il bianco è bianco, meglio è. E’ la regola di quello che si potrebbe definire “racconto-scoop”, il racconto che non facendosi condizionare dai fatti scorre meglio. Il “racconto-scoop” è la specialità di certo giornalismo. E’ costruito da un’infinità di microstorie talvolta di poche righe. Nessuna decisiva, nessuna dirimente. Una tempesta di cammei incastonati con perizia per dare il senso di un affresco epocale dove conta l’insieme e perdono peso gli argomenti di chi verificando le microstorie ne verifica la sostanziale falsità. “Aspra Calabria” si apre con un falso albergo ipertecnologico nella Locride. Non c’era. Ce n’era uno a Reggio, l’Excelsior. Bocca lo sposta a Locri ed è stupore per il contrasto tra ipertecnologia e arretratezza. Nella Locride l’impavido cronista si avventura nell’Aspromonte dopo aver drammaticamente lottato con se stesso: «andare da solo nell’Aspromonte è da stupido, ma se non ci vado che cronista sono?». Il vecchio partigiano risente «scarpe rotte eppur bisogna andare», e mentre un brivido attraversa la schiena del lettore Bocca, intrepido, si incammina fino “al passo del Mercante”. Ci è andato veramente? Lui scrive che da lì vede Stromboli, Vulcano e Lipari che «stanno immobili nell’azzurro come neri cetacei». L’immagine letteraria è bella anche se da lì le Eolie non si possono vedere. Ma che ci fa? Altra storia altro brivido: sono di scena i raccoglitori di erica cacciati dall’Aspromonte con le lupare sotto il naso perché i signori dell’Anonima non vogliono impicci tra i piedi. A cercare l’erica erano i più poveri tra i poveri per fortuna cancellati dalle trasformazioni economiche e sociali e la mafia non c’entra nulla (tra l’altro l’erica cresce nelle zone di mezza montagna e non negli anfratti in alto in cui erano sistemate le prigioni dell’Anonima). Dai brividi all’indignazione: un sequestrato per due volte fugge, ma per due volte un intero paese, San Luca, si mobilita lo riacciuffa e lo riconsegna in trionfante corteo agli sprovveduti che se lo sono fatto scivolare tra le dita. Potrei continuare. Il racconto di Bocca sull’Aspra Calabria è tenuto insieme da storie spesso false, sempre deformate, costruite su dicerie e pregiudizi che però sono messi insieme in modo da provocare attraverso uno straordinario effetto letterario una grande suggestione che ne garantisce la verità assoluta. Non è un libro sulla Calabria ma contro la Calabria. Un’operazione di mercato. Bocca disegna una Calabria irrimediabile: lo è sempre stata, lo sarà sempre. Come certi personaggi di Dostoievskij è destinata fin dall’inizio a un destino tragico e alla sconfitta. Più che un messaggio o una ricerca il racconto di Bocca, per la nostra regione, è una sentenza. Il male oscuro alla cui ricerca Bocca e Scalfari dicono di aver inutilmente dedicato parte della loro vita, è in modo subliminale squadernato attraverso mille storie (false): i calabresi. Sono loro il male oscuro, la radice del proprio disgraziato destino. E’ la loro incontenibile e incorreggibile tendenza a delinquere, a uccidere qualsiasi speranza: non ti curar di loro ma guarda e passa. Non se ne salva uno solo, teorizza sconsolato il vecchio partigiano. Corrado Alvaro? Non scherziamo. Era pur sempre figlio di uno ‘ndranghetista, quindi minato dentro dal marcio calabro e dall’anima omertosa. Una scimmietta che non sente non vede non parla; anche se capisce. Che c’è di più e di meglio che polemizzare con Alvaro per farsi più belli e vendere più copie? Bocca, trasforma la sua radicale incapacità piemontese di capire la Calabria in una lezione d’indignazione che dissacra tutto e tutti senza se e senza ma. Racconta di Alvaro e della «volta che tornò a casa da un viaggio e chiese dove fosse il padre e la madre gli diceva “è andato all’organizzazione” e lui sapeva quale ma non faceva domande». Bravo Bocca, sempre dalla parte del più forte. P.S. Ho detto all’inizio di questo articolo dei meriti di Rubbettino. Credo anche che la pubblicazione di “Aspra Calabria”, presentata anziché come documento da far conoscere, come saggio legittimato dalla prefazione di Scalfari, costituisca un incidente culturale.

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