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Un vecchio fantasma ha bussato qualche giorno fa alle porte della Repubblica democratica del Congo: si chiama Ebola. Un perfido toc toc che è parso come il sibilo di una bomba aerea prima della deflagrazione al suolo, visto che laggiù già si combatte contro il Covid-19 ad armi impari rispetto a quelle del resto del pianeta, e che in questa fetta di Africa centrale è attivo il più grande focolaio di morbillo al mondo. Un paese tanto ricco di materie prime da poter sfamare l’intera Europa, dove invece la metà degli 80 milioni di persone che vi abitano vivono in povertà assoluta. Nella speciale mappa degli inferi, il Congo è tra le regioni dove essere bambini è impossibile. Oltre quarantamila di essi, secondo l’Unicef, lavorano nelle miniere di cobalto, minerale indispensabile per cellulari, tablet e decine di altri gingilli elettronici. Pensiamoci, appena svegli, controllando lo smartphone in attesa di un ti amo: lì dentro c’è il lavoro di una moltitudine di piccoli schiavi che rischiano la morte per 0,75 cents al giorno, o anche per soli 2 euro a settimana. Mutilazioni e paralisi sono nell’agenda quotidiana. Forse la peggiore ingiustizia che riguarda i bambini, ripete Siddhart Kara, docente ad Harvard, notissimo attivista ed esperto di moderne schiavitù. Un inferno che esiste, è reale, ad appena 6 ore e 33 minuti di volo da Roma.
Un’ora e 10, intanto, è il tempo che separa l’aeroporto di Fiumicino da quello di Trieste. La psicologa Lorena Fornasir ci racconta di un altro girone dantesco che riguarda la vita di bambini che sulla Terra non hanno diritti, in quel buco nero dove il mondo stesso tutto intero clamorosamente casca. E con esso ogni civiltà, ciascuna scienza, ciascuna sapienza. Trieste, al confine con la Slovenia, è una tappa cruciale di approdo dopo l’attraversamento epico della cosiddetta rotta dei Balcani, dove eserciti di disperati si incamminano per tentare di sopravvivere fuggendo da paesi dell’est in guerra. Un itinerario del terrore, perché moltissimi vengono intercettati dalle polizie più feroci d’Europa, come quella della Croazia, massacrati di botte, torturati, spogliati dei vestiti e di ogni dignità, ricacciati indietro. Quelli che riescono ad arrivare in Italia per lo più equivalgono ai cani per strada o, peggio, finiscono nelle mani del traffico di esseri umani. In mezzo, centinaia di ragazzini e bambini innocenti.
Domenica scorsa accanto alla fastosa stazione ferroviaria costruita dagli Asburgo per collegare la città a Vienna, l’associazione Linea d’ombra Odv La Strada Si.Cura, messa su con mitezza e pazienza che hanno del miracoloso in una città così difficile, a guida intransigente leghista in larga parte vicina a Casapound, ha soccorso altri quattro ragazzi. Gli ennesimi reduci di un gruppo forse scoperto, martoriato e deportato (letterale). Arrivavano da Bihac e dal rinomato (per le sofferenze) Lipa Camp, in Bosnia, nella ex Jugoslavia. “Sconvolti, frastornati, febbricitanti di stanchezza e di sfinimento”, racconta la Fornasir. Che cosa fa questa donna, e con lei pochi triestini dissidenti? Cura le ferite dei piedi di bambini che hanno camminato per boschi, salito e disceso monti, assistito impotenti alla morte di amici cascati nei burroni. “Esperienze dalle quali a un certo punto si dissociano – spiega la psicologa – per riuscire a sopravvivere”. In strada, senza una struttura, la piccola armata della salvezza combatte contro l’indifferenza, i divieti, le cacciate delle forze dell’ordine imposte dal vicesindaco Paolo Polidori (quello che al grido di “tolleranza zero, Trieste la voglio pulita” a gennaio scorso gettò le coperte dei clochard in un cassonetto) in posti sempre più sporchi. E le deportazioni, vere e proprie: ragazzi che arrivano in Italia e che avrebbero tutti i diritti secondo la legge di fare domanda d’asilo vengono presi, fotosegnalati, spesso ricacciati in Slovenia. E da lì, verso un micidiale percorso all’indietro via Croazia e Serbia. Con un nulla osta alle torture: abominio, occorre dirlo, del quale sono responsabili anche la politica e la polizia italiane.
Afgani, pachistani, curdi, iracheni, magrebini, e tra essi decine di ragazzini che non superano i 15 anni. Con voce rotta Lorena ricorda di un ragazzino incontrato per strada, da solo, nel gelo di gennaio: “Senza scarpe, scorticato dai ferri roventi usati dalla polizia croata nel garage di Korenica (il famoso “garage delle torture” nella cittadina croata, da dove arrivano testimonianze terribili, ndr), affamato; era partito con un amico caduto poi in un dirupo sotto ai suoi occhi. Disse di stare bene, ma è per quel meccanismo di dissociazione dal dolore. Un dolore che non poteva permettersi”. Un dolore che però grida giustizia.
Simbolo di un male forse intraducibile per noi uomini e donne smartphonizzati è quello della vicenda di Zohra, la bimba di otto anni che lavorava come domestica in cambio della promessa di poter studiare a Rawalpidi, in Pakistan, picchiata e torturata fino alla morte pochi giorni fa dai ricchi padroni di casa perché colpevole di aver liberato due pappagallini dalla gabbia. Zohra ha implorato pietà, ma non è servito.
La condizione di molti bambini tra India, Pakistan e Afghanistan è difficile anche da raccontare, anche da pensare. Dawood Yousefi è un mediatore culturale, attivista per i diritti umani, e fa anche l’attore. Ricordando il film “Sembra mio figlio”, nel quale fu protagonista due anni fa sulla storia di un ragazzino, Ismail, sfuggito all’orrore delle persecuzioni in Afghanistan, Dawood, in Italia da 18 anni, dove arrivò come rifugiato, ci spiega non senza emozione come il suo paese sia un posto “sbagliato per i bambini che ci nascono e che lì crescono”. Non esiste accesso alla salute, all’istruzione, finanche all’acqua potabile. “Tanti sono orfani, vengono sfruttati per lavorare, o anche sessualmente, specie nelle zone sperdute del paese. Tantissimi stanno per strada, prede dei terroristi che li usano per compiere attentati”. Una realtà, denuncia Dawood Yousefi, dimenticata dal mondo.
Un mondo dove per un bambino su tre l’infanzia è un diritto negato. Secondo l’ultimo rapporto di Save the Children il paese peggiore, sotto questo aspetto, è la Repubblica Centrafricana, il migliore è Singapore.
L’Italia è all’ottavo posto. Negli ultimi 10-12 anni nel nostro paese è triplicato il numero dei minori in povertà assoluta, un milione e 200mila, ai quali si aggiunge un altro milione di piccoli che rischiano di scivolare in questa categoria. Lo studio tiene conto di quel 40 per cento che vive in condizioni di grande fragilità socio-economica anche a causa della crisi seguita alla pandemia.
Uno su dieci non è stato raggiunto dalla didattica a distanza, a rischio dunque isolamento. Ovviamente è soprattutto al sud che si concentra la cosiddetta povertà educativa. La didattica via web ha accentuato il divario sociale: i dati Istat parlano di un 12,3 per cento che non possiede computer o tablet, e questa percentuale arriva a 20 nel Mezzogiorno. Il 49 per cento dei bambini calabresi è a rischio povertà ed esclusione sociale, ricorda poi il Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza della Regione, Antonio Marziale. Numeri spaventosi.
Anche questa, sotto molti aspetti, è schiavitù. Ed è su queste cifre, su questi ed altri racconti, dall’Africa alla Siria che entra nel decimo anno di guerra – con quasi 5 milioni di bambini nati durante il conflitto, un milione di piccoli nati già col marchio di rifugiato nello stesso periodo nei paesi limitrofi, oltre novemila uccisi o feriti, quasi cinquemila minorenni, anche di 6 o 7 anni, reclutati per combattere –, e dal Pakistan all’Afghanistan, all’India fino alle favelas dell’America Latina e ai dolori inesprimibili ai confini tra Messico e Stati Uniti che casca il mondo col suo noncurante girotondo. E con tutti i suoi bei vestiti. Pensiamoci, appena svegli. Scriviamolo sulla lavagna all’infinito, imitando Bart Simpson: quei bambini sono tali e quali ai nostri figli.
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