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POTENZA – Quelle porte chiuse, in cui Antonio Nicastro si è imbattuto al pronto soccorso del San Carlo. Proprio lì dove si era rifugiato chiedendo aiuto dopo giorni di sofferenze inascoltate. Ma anche le corsie privilegiate per l’accesso ai tamponi diagnostici riservate ad altri cittadini “speciali”. E non soltanto per ragioni istituzionali e di servizio.
Raddoppia l’inchiesta della Procura di Potenza sulla morte del giornalista-attivista Nicastro e la gestione, più in generale, dell’emergenza covid 19 in Basilicata.
A coordinare il lavoro dei militari della sezione di polizia giudiziaria dei carabinieri, al comando del colonnello Domenico Del Prete, e degli agenti della Squadra mobile di Potenza, diretti da Donato Marano, è il procuratore aggiunto Maurizio Cardea.
Sulla sua scrivania, infatti, sono settimane che si va raccogliendo il materiale necessario per ricostruire l’accaduto: dalle cartelle cliniche di diverse delle vittime lucane della pandemia ai verbali di una serie di persone informate sui fatti sentite dagli investigatori. Uno scenario che non pare scalfito dalle conclusioni auto-assolutorie, inviate in procura la scorsa settimana, dell’inchiesta interna avviata dalla Regione (LEGGI LA NOTIZIA) dopo l’esplosione delle polemiche sul caso di Nicastro, morto il 2 aprile dopo aver denunciato ritardi nell’effettuazione dei tamponi.
Al centro dell’attenzione degli inquirenti vi sarebbero, ovviamente, i dubbi su come sia stato possibile, il 13 marzo, rimandare a casa Nicastro dal pronto soccorso del San Carlo, senza effettuargli né il tanto agognato tampone, né la radiografia toracica che era stata suggerita da una guardia medica, dal momento che lamentava tosse e febbre resistenti a più di una settimana di terapia antibiotica.
Nella notte tra il 9 e il 10 marzo infatti, come più volte evidenziato dal Quotidiano del Sud, il premier Giuseppe Conte aveva esteso a tutta Italia il livello di allerta sanitaria che prima era riservato esclusivamente alle “zone rosse” del Nord. Qualche ora prima, inoltre, dal ministero della Salute era stata diffusa una circolare che estendeva la definizione di «caso sospetto di covid 19», a cui bisognava effettuare il tampone diagnostico, ai pazienti con febbre più un altro sintomo sospetto («esempio tosse, difficoltà respiratoria»), che chiedevano il ricovero ospedaliero, «senza un’altra eziologia che spieghi pienamente la presentazione clinica». Il 10 marzo, poi, c’era stata anche la scoperta del «paziente zero» di Potenza.
L’ipotesi, pertanto, è che il personale in servizio quel giorno al pronto soccorso non abbia fatto quanto doveva, contribuendo all’aggravamento delle condizioni del 67enne. Al di là di qualunque indicazione ricevuta dall’alto, in quei giorni concitati. Vuoi per evitare di diffondere il panico; vuoi per scongiurare accessi incontrollati in ospedale, che in caso di picchi epidemiologici come quelli registrati in altre zone d’Italia avrebbero potuto portare alla saturazione dei posti letto e alla paralisi della macchina sanitaria.
Per il tampone, d’altronde, Nicastro avrebbe dovuto attendere ancora una settimana dal mancato ricovero in pronto soccorso, ottenendo un po’ di attenzione solo dopo aver denunciato pubblicamente quell’attesa estenuante. Per poi finire, due giorni più tardi, direttamente nel reparto di terapia intensiva del San Carlo in condizioni irreversibili.
Qui però si innesta la seconda indagine in corso, che riguarderebbe anche altri casi simili, come quello dell’imprenditore potentino Palmiro Parisi. Pazienti abbandonati a se stessi e tamponi, all’epoca particolamente ambiti (per le limitate capacità di processamento a disposizione), riservati a una stretta cerchia di vip. Questo il sospetto di fondo, che rischia di risalire fino ai vertici della sanità lucana e a chi ha gestito dalla Regione l’emergenza sanitaria.
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