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di PIETRO RENDE
Il Mediterraneo ha sempre fatto discutere i grandi meridionalisti. Salvemini e Sturzo, entrambi costretti esuli a Londra, pure stimandosi reciprocamente, si erano già divisi sull’interventismo Giolittiano in Libia nel 1911, con il primo che la definiva “uno scatolone di sabbia” e il secondo che tracciava la nuova politica estera e nazionale incentrandola appunto sul Mediterraneo e non più sulla Triplice filo-Danubiana o l’Intesa filo-Renana. Il loro conflitto partiva dalla stessa base, il Mezzogiorno, ma mentre Salvemini lamentava un’attenzione governativa per l’Africa maggiore di quella riservata al povero Mezzogiorno italiano, Sturzo, invece, intuiva che senza la prossimità di una grande area commerciale, il Sud sarebbe rimasto asfittico di investimenti. Un confronto che condurrà Salvemini ad abbandonare il gruppo de “La Voce “ di Prezzolini e che oggi ritorna d’attualità, per esempio, nei teorici del “pensiero meridiano” e della “decrescita felice” in contrapposizione a grandi banchieri illuminati come A. Profumo sempre aperti ai soci libici sulla scia della sicurezza energetica, parimenti assicurata all’Italia dal coraggio e dalla lungimiranza di Enrico Mattei. La Calabria è parte in causa di questo “processo” non solo perché la “prima Repubblica” l’ha dotata del più grande porto europeo di transhipment del Mediterraneo, nonché della imponente residenzialità universitaria pro-stranieri di Arcavacata, ma per la sua vicinanza alla Libia come confermato dalla caduta del Mig Libico nel giugno 1980 in sospetta concomitanza con l’attentato all’aereo Itavia. A tale proposito, Cossiga e Priore parlarono di uno scontro fra servizi segreti francesi e italiani, il cui inizio risalirebbe alla occupazione francese della Tunisia e a quella italiana, subordinata, della Libia. La Francia, insomma, col suo decisionismo anticipatore avrebbe conteso e contenderebbe all’Italia un primato Mediterraneo che, nonostante la sua bi-direzionalità con l’Atlantico, l’ha indotta a promuovere una coalizione poi divenuta un’Unione del (corretta dai tedeschi in “per” il) Mediterraneo dopo il fallimento della Dichiarazione di Barcellona del 1995 e il tentativo di ricostruirvi dopo 500 anni un’area di libero-scambio resa impossibile dalla reciproca incomunicabilità dei “sovrani” nordafricani e dal terrorismo che, si teme, possa succedere a Gheddafi ma che in realtà è già presente in altri Stati, come dimostra il caso Bin Laden in Pakistan. Comunque, oggi che Francia e Italia chiedono la sospensione di Schengen, anche per la concorrenza elettorale di Marine Le Pen e di Bossi, si vede meglio che la coincidenza tra questione meridionale e mediterranea è di natura politica, di relazioni statali, e non può essere affidata agli automatismi di mercato, perché si tratta di questioni di grandi dimensioni. Come fu quella del trasferimento dei traffici dal Mediterraneo all’Atlantico, dopo la scoperta dell’America, che – ha insegnato F. Braudel delle Annales – è alla origine della nostra questione meridionale, ancor prima delle leggi di unificazione amministrativa e del mercato unitario di 150 anni fa. Oggi che una Seconda Globalizzazione post-americana, più integrale e antropologica della prima, sembra investire le coste nordafricane e che gli Usu, impegnati prioritariamente nella lotta al Terrorismo e negli aiuti ai Paesi Peco (ex comunisti), riconoscono alla Ue il valore aggiunto di una specifica missione Mediterranea, sia pure con l’aiuto della Nato, l’Italia è sotto esame internazionale con la sua polifonia che si contrappone al mutismo europeo, più totale di quello della Lega araba e frutto di mini-coalizioni (senza l’Italia) che denotano almeno tre anime europee (Danubiana o tedesca, Atlantico-Renana o Franco-Inglese e Mediterranea) ma anche la riluttanza a seguire la Nato, non solo sull’ammissione della Turchia nell’Ue. Infatti, l’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati ha criticato la solita confusione italica di volere ripristinare con la Libia (quale?) l’Accordo sugli immigrati che denota un’esitazione che richiama quella del re e Badoglio verso gli alleati e di Mussolini verso i tedeschi, prima dell’8 settembre 1943. S’impone perciò il ritorno alla Grande politica e chi si è illuso di poterla sostituire con il localismo gestionale dei “cacicchi” padani è insufficiente a governare questa nuova e grande transizione con i “campi di bocce” e le “sagre” e nemmeno con gli “sportellini” bancari o postali. Davanti al ricatto Libico e alla penuria di credenziali affidabili da parte delle “dittature dello sviluppo”, compresa la Cina, i piccoli imprenditori e gli elettori della Lega, poi, si aspettano ben altre riforme annunciate prima di uno squallido Machiavellismo elettorale sul “pacifismo assoluto”.
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