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di LUIGI M. LOMBARDI SATRIANI
Tempo di guerre, tempo di mercati, il nostro. Tra le ultime la guerra (comunque la si chiami, tentando di occultarla) alla Libia, tra gli ultimi quello parlamentare in cui si sono pagati i Disponibili (ma preferiscono chiamarli Responsabili). Tempo di riti, anche. Lo abbiamo sottolineato per la beatificazione di Giovanni Paolo II e per le nozze regali di Londra. Lo sottolineiamo adesso anche per l’uccisione di Bin Laden, per le modalità della “catarsi mediatica” che è stata montata su di essa. “Chi se ne frega!, ha pigolato la garrula Santanchè, genuflessa dinanzi all’evento epocale dell’uccisione del nemico. Sappiamo che il nemico è necessario come fattore di coesione del noi (lo mostra, tra gli altri, l’ottimo libro di Francisco Mele, “Mio caro nemico”, pubblicato nel 2009 da Armando Editore). Non per questo è doveroso unirci al coro degli esaltanti o proclamare, come pure ha fatto un ministro della nostra Repubblica, che tale uccisione rappresenta «la vittoria del bene sul male». In effetti essa e soprattutto le modalità con cui è avvenuta e la gestione di esse da parte delle autorità statunitensi, hanno suscitato sentimenti complessi e, conseguentemente, perplessità e preoccupazioni. Anzitutto, le parole usate nell’annuncio al mondo da parte del presidente Obama: «Abbiamo ucciso Osama Bin Laden. Giustizia è fatta». Non è un caso che lo stesso discorso del presidente degli Stati Uniti si concluda con il richiamo a Dio: non è lo stesso Dio del comandamento assoluto del “non uccidere”? Era proprio necessario coinvolgere la giustizia in questa operazione? A cosa sono dovute le crepe e le progressive correzioni nella narrazione ufficiale delle azioni compiute dai Navy Seals? Sabino Cassese, pur ritenendo «che gli Stati Uniti siano una grande democrazia dotata di alcune ottime istituzioni e che molti politici e intellettuali statunitensi abbiano tanto da insegnarci a noi europei», con il suo consueto rigore ha sottolineato tre violazioni da parte delle autorità americane. E’ stata violata «la norma che vieta la tortura e non la giustifica mai», al punto che essa «è diventata un “principio costituzionale” della comunità internazionale, e a nessuno dovrebbe essere consentito di infrangerla senza essere debitamente processato e punito. [.] La seconda violazione è consistita nel compiere una operazione militare in territorio pakistano senza il consenso di quello Stato. In una parola, è stata violata la sovranità del Pakistan». L’irritazione di questi giorni del Governo pakistano indica come sia stata recepita tale violazione. «La terza violazione è quella di un principio fondamentale di civiltà giuridica. Uno Stato democratico non può trasformarsi in assassino, tranne che in due casi. Anzitutto nell’ipotesi di violenza bellica in atto. Ma tra gli Usa e Al Qaeda non c’è guerra, né internazionale né civile; l’azione statunitense contro le reti terroristiche di Al Qaeda è solo azione di polizia che, se intende dispiegarsi a livello internazionale, ha bisogno della cooperazione delle forze dell’ordine degli altri Stati, gli Usa non essendo un gendarme internazionale. Del resto, anche in una guerra internazionale, il nemico può essere ucciso solo in campi di battaglia, non a casa sua, tranne che si difenda con le armi, sparando e uccidendo; se sorpreso inerme nella sua dimora, va catturato e, se autore di crimini di guerra, processato (La Repubblica, 6 maggio 2011). Notevoli perplessità suscitano anche la frettolosità dell’eliminazione, a poche ore dall’uccisione, del cadavere e del rito religioso imbastito sulla portaerei prima del lancio di questo in mare. Si voleva nascondere qualcosa? Davvero le fotografie del corpo colpito a morte non vengono rese pubbliche perché raccapriccianti? La stessa uccisione di Bin Laden inerme (così sembra) non ha voluto forse evitare verità che potessero risultare sgradite al potere americano o addirittura controproducenti? Evidente, per molti, l’analogia con l’uccisione del bandito Giuliano, la sua messa in scena, le bugie con le quali si accompagnò la teatralizzazione della sua morte e dell’esposizione del suo corpo per avallare versioni ufficiali successivamente dimostratesi false. Sono, oltre che comprensibili, condivisibili, le manifestazioni dei tanti, tra cui molti giovani, che hanno espresso giubilo saltellante dinanzi alla Casa Bianca a Washington e a Ground Zero a New York? È molto amaro che dinanzi all’uccisione di un uomo, in quel momento inerme, anche se responsabile di migliaia di morti, solo la Chiesa cattolica e qualche laico abbiano espresso le loro riserve, perché la vita è sacra, sempre e comunque. La violazione di questo principio non è condivisibile, meno che mai con tripudio. La vita di un essere umano per lui è soltanto quella e non può avere risarcimento alcuno. Il contrasto tra esigenze della politica e imperativi etici e il tentativo di un loro equilibrio hanno caratterizzato diverse epoche, dando luogo a complesse problematizzazioni e interminabili discussioni. Si pensi, ad esempio, a come essi siano stati oggetto del giusnaturalismo, delle variegate formulazioni di un diritto naturale, inattaccabile dalla leggi, ai dilemmi se fosse o meno legittimo eticamente eliminare il tiranno. Nella Grecia classica la doverosità dell’ubbidienza alle norme del re o a quelle del cuore e alla religione della pietà per i defunti ha dato vita alla splendida figura di Antigone, che intende dare sepoltura al fratello Polinice, trasgredendo così il divieto del re Creonte, e si contrappone alla timorosa sorella Ismene, non meno legata da affetto per il fratello. Forme diverse, certo, ma che propongono tutte, pur con diversità di accenti, il rapporto tra diritto ed etica. La politica ha le sue priorità, le sue logiche. Ma è senz’altro scontato che esse debbano prescindere sempre e comunque dall’etica? E in nome di quali superiori principi? Qualcuno ha già venduto il libro sulla morte di Bin Laden e ci sono già i gadget per celebrare l’evento. Si può liquidare tutto questo, come fa lo scrittore Jonathan Safran Foer, “ma questo è il capitalismo. Sapete, ci sono 300 milioni di persone in America, 7 miliardi nel mondo. Quanto basta a tirar fuori un paio di lunatici e un paio di cretini. Qualcuno buono, qualcuno cattivo”? È accettabile che uno stesso Stato differenzi i diritti umani universali, riconoscendoli nella loro indiscutibile integralità ai propri cittadini, attenuandoli fortemente per tutti gli altri? «Dal 2011 gli Usa hanno creato un limbo sia giuridico sia territoriale (Guantanamo) per presunti terroristi stranieri, tra l’altro ammettendo la tortura. Ed ora di fatto ammettono anche le “esecuzioni extragiudiziali” con blitz all’estero. Bisogna dunque chiedersi se gli Usa ritengano che la “supremazia del diritto” valga solo al loro interno, mentre perde ogni valore nel campo delle relazioni internazionali. Se così fosse dovremmo seriamente preoccuparci per le prossimi mosse della Superpotenza planetaria, oggi ancora guidata da un uomo che, almeno a parole, dice di credere nel diritto e nella giustizia» (Cassese). Con il mondo arabo in subbuglio, con la ribellione di popoli investiti dall’attuale vento di libertà, occorre aprire un discorso radicalmente nuovo, trovare altre, profonde, ragioni di dialogo. È questa la sfida che si pone oggi dinanzi a Barak Obama. Da lui, primo nero a giungere alla Casa Bianca, che ha impostato tutta la sua campagna presidenziale parlando agli ultimi, ai senza voce, ai diseredati, premio Nobel per la pace, ci attendiamo parole diverse e azioni all’altezza delle aspettative legittimamente suscitate.

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