X
<
>

Jole Santelli

Share
6 minuti per la lettura

IL TAR Calabria si è pronunciato sul ricorso presentato dal Governo nei confronti della Regione Calabria (LEGGI) in riferimento all’ordinanza con cui la presidente Jole Santelli, lo scorso 29 aprile, aveva anticipato già al 30 aprile tutta una serie di attenuazioni delle misure restrittive vigenti per l’emergenza coronavirus (LEGGI). Tra queste vi era, in particolare, il punto 6 che consentiva a Bar e Ristoranti di riprendere la propria attività anche se solo con tavolini all’aperto.

LEGGI LA TESI DELL’AVVOCATO DELLA REGIONE CALABRIA

La sentenza del Tar, tuttavia, al di là delle motivazioni di merito che hanno portato all’accoglimento del ricorso del Governo e, quindi, all’annullamento dell’ordinanza della Santelli nella parte riferita all’apertura di bar e ristoranti (resta valida per tutto il resto), acquisisce molto interesse con riferimento alle motivazioni giuridiche che hanno portato i giudici ad esprimersi.

La questione Costituzionale

In primo luogo il Tar sgombera il dubbio sulla competenza o meno della Corte Costituzionale in questa materia, decisione che acquisisce il valore di precedente in considerazione del fatto che, sull’emergenza Coronavirus, quello appena concluso potrebbe non essere l’unico contrasto tra Stato e Regioni che verrà affrontato.

Il Tribunale, quindi, mette un punto fermo ritenendo che « non ci siano gli estremi per sospendere il giudizio e sollevare d’innanzi alla Corte costituzionale questione di legittimità del decreto legge». Questo perché, con riferimento alla sospensione dell’attività economiche «l’art. 41 Cost., nel riconoscere libertà di iniziativa economica, prevede che essa non possa svolgersi in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana», non essendo «prevista una riserva di legge in ordine alle prescrizioni da imporre all’imprenditore allo scopo di assicurare che l’iniziativa economica non sia di pregiudizio per la salute pubblica» ne deriva che «tali prescrizioni possono essere imposte anche con un atto di natura amministrativa».

Premesso questo, pertanto, «non si coglie dunque un contrasto, in particolare nell’attuale situazione di emergenza sanitaria, tra la citata norma costituzionale e una disposizione legislativa che demandi al Presidente del Consiglio dei Ministri di disporre, con provvedimento amministrativo, limitazione o sospensione delle attività di somministrazione al pubblico di bevande e alimenti, nonché di consumo sul posto di alimenti e bevande, compresi bar e ristoranti, allo scopo di affrontare l’emergenza sanitaria dovuta alla diffusione del virus COVID-19».

Inoltre, rispetto alla competenza in materia «non vi può essere dubbio che lo Stato rinvenga la competenza legislativa all’adozione del decreto de quo innanzitutto nell’art. 117, comma 2, lett. q) Cost., che gli attribuisce competenza esclusiva in materia di “profilassi internazionale”. Ma la competenza legislativa si rinviene anche nel terzo comma del medesimo art. 117 Cost., che attribuisce allo Stato competenza concorrente in materia di “tutela della salute” “protezione civile”».

E per sgomberare il campo da ogni dubbio sul punto il Tar precisa anche che «il fatto che la legge abbia attribuito al Presidente del Consiglio dei Ministri il potere di individuare in concreto le misure necessarie ad affrontare un’emergenza sanitaria trova giustificazione nell’art. 118, comma 1 Cost.: il principio di sussidiarietà impone che, trattandosi di emergenza a carattere internazionale, l’individuazione delle misure precauzionali sia operata al livello amministrativo unitario», e a seguire, «una volta accertato che l’individuazione nel Presidente del Consiglio dei Ministri dell’Autorità che deve individuare le specifiche misure necessarie per affrontare l’emergenza è conforme al principio di sussidiarietà di cui all’art. 118 Cost., deve altresì essere affermato che ciò giustifica l’attrazione in capo allo Stato della competenza legislativa, pur in materie concorrenti quali la “tutela della salute” e la “protezione civile”».

Quindi, per il Tar, è totalmente da escludere « che si possa affermare che nel caso di specie siano stati attribuiti all’amministrazione centrale dello Stato poteri sostituitivi non previsti dalla Costituzione» e quindi l’azione del Governo è legittima perché «nel caso di specie non vi è stato un intervento sostitutivo dello Stato, bensì avocazione delle funzioni amministrative in ragione del principio di sussidiarietà, accompagnata dalla chiamata in sussidiarietà della funzione legislativa».

L’illegittimità dell’ordinanza della presidente Santelli

Per il Tar non vi è dubbio che sul punto l’ordinanza della Santelli sia illegittima in quanto «spetta infatti al Presidente del Consiglio dei Ministri individuare le misure necessarie a contrastare la diffusione del virus COVID-19, mentre alle Regioni è dato intervenire solo nei limiti delineati dall’art. 3, comma 1 d.l. n. 19 del 2020, che però nel caso di specie è indiscusso che non risultino integrati».

Quindi avendo superato i limiti del d.l. 19/20, nel punto relativo a bar e ristoranti, per i giudici del Tar la presidente Santelli non aveva legittimazione a disporre diversamente da quanto previsto dai decreti del Presidente del Consiglio. Una decisione che pone una pregiudiziale, a questo punto, anche con riferimento a possibili ordinanze che la stessa Santelli o qualunque altro presidente di Regione potrebbe emanare in contrasto con i decreti del presidente Conte.

La falsa idea del regresso dell’epidemia

Il Tar, però, evidenzia anche un altro aspetto bocciando completamente il presupposto di partenza che ha consentito alla Santelli di emanare l’ordinanza, ossia che in Calabria era possibile aprire per via del regresso tangibile dell’epidemia.

In particolare, «l’ordinanza regionale motiva la nuova deroga alla sospensione dell’attività di ristorazione, mediante l’autorizzazione al servizio al tavolo, con il mero riferimento del rilevato valore di replicazione del virus COVID-19, che sarebbe stato misurato in un livello tale da indicare una regressione dell’epidemia». Tuttavia «è ormai fatto notorio – scrivono i giudici – che il rischio epidemiologico non dipende soltanto dal valore attuale di replicazione del virus in un territorio circoscritto quale quello della Regione Calabria, ma anche da altri elementi, quali l’efficienza e capacità di risposta del sistema sanitario regionale, nonché l’incidenza che sulla diffusione del virus producono le misure di contenimento via via adottate o revocate (si pensi, in proposito, alla diminuzione delle limitazioni alla circolazione extraregionale). Non a caso, le restrizioni dovute alla necessità di contenere l’epidemia sono state adottate, e vengono in questa seconda fase rimosse, gradualmente, in modo che si possa misurare, di volta in volta, la curvatura assunta dall’epidemia in conseguenza delle variazioni nella misura delle interazioni sociali».

Del resto «un tale modus operandi appare senza dubbio coerente con il principio di precauzione, che deve guidare l’operato dei poteri pubblici in un contesto di emergenza sanitaria quale quello in atto, dovuta alla circolazione di un virus, sul cui comportamento non esistono certezze nella stessa comunità scientifica», senza dimenticare che «detto principio, per cui ogni qual volta non siano conosciuti con certezza i rischi indotti da un’attività potenzialmente pericolosa, l’azione dei pubblici poteri debba tradursi in una prevenzione anticipata rispetto al consolidamento delle conoscenze scientifiche, deve necessariamente presidiare un ambito così delicato per la salute di ogni cittadino come è quello della prevenzione. È chiaro che, in un simile contesto, ogni iniziativa volta a modificare le misure di contrasto all’epidemia non possono che essere frutto di un’istruttoria articolata, che nel caso di specie non sussiste».

Collaborazione tra Stato e Regioni inesistente

In conclusione i giudici esaminano la mancata collaborazione tra Stato e Regione che inevitabilmente è sfociata in una sorta di abuso di potere.

«Occorre ricordare come la violazione del principio di leale collaborazione costituisca elemento sintomatico del vizio dell’eccesso di potere. Nel caso di specie, non risulta che l’emanazione dell’ordinanza oggetto di impugnativa sia stata preceduta da qualsivoglia forma di intesa, consultazione o anche solo informazione nei confronti del Governo. Anzi – contesta il Tar – il contrasto nei contenuti tra l’ordinanza regionale e il d.P.C.M. 26 aprile 2020 denota un evidente difetto di coordinamento tra i due diversi livelli amministrativi, e dunque la violazione da parte della Regione Calabria del dovere di leale collaborazione tra i vari soggetti che compongono la Repubblica, principio fondamentale nell’assetto di competenze del titolo V della Costituzione».

Share

COPYRIGHT
Il Quotidiano del Sud © - RIPRODUZIONE RISERVATA

Share
Share
EDICOLA DIGITALE