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POLICORO – In un famoso processo del dopoguerra ad un boss mafioso, alla precisa domanda del giudice: cos’è la mafia? La risposta fu altrettanto categorica: la mafia non esiste? Cos’è la mafia? Facendo le dovute proporzioni ci si potrà interrogare se la Basilicata sia o meno un’isola felice. Giuseppe Ayala lo ha detto in un incontro pubblico l’8 dicembre scorso nel centro jonico; altri però sostengono che in Lucania la mafia c’è. In che misura non si sa. Fino a quando il dibattito rimane nell’alveo della contrapposizione culturale tra la Basilicata felix e quella infelix tutto sarebbe normale. Quando, però, si tirano in ballo altre persone bisogna stare attenti a non rovinare intere famiglie e la reputazione che ogni essere umano ha. Soprattutto nelle ultime settimane, sulle cronache locali il nome di Pino Lopatriello è stato fatto a più riprese da confidenti della giustizia su una sua presunta appartenenza ai Basilischi, la cosiddetta quinta mafia. Finora è stato sempre lontano dai riflettori, ma dopo gli ultimi accostamenti del pentito Antonio Cossidente ha deciso di difendersi. «Non conosco Cossidente – spiega Lopatriello al Quotidiano – e non l’ho mai incontrato, se non in una mezza occasione a Melfi nel 2001, quando condividevamo la stessa sezione, e non cella attenzione, del carcere per due mesi. Non capisco come questo personaggio mi possa chiamare in causa in una pseudo organizzazione criminale di cui ancora oggi ignoro l’esistenza, almeno per quanto mi riguarda».
Se ha la coscienza a posto, perché Cossidente ha fatto il suo nome agli inquirenti?
«In passato non sono mancati nella storia d’Italia casi in cui gente che non aveva più nulla da perdere abbia tirato in ballo altre persone in inchieste giudiziarie. C’è una rete di pentiti, che si accusano a vicenda tirando dentro altri, e io sono uno di questi».
Ma perché?
«Loro dicono che io sono il più intelligente di tutti e passeggio con l’aria di un boss. Questo è il mio più grande difetto. E lo stesso discorso vale per Giovanni Cosentino, che ho conosciuto per una notte e un giorno dopo che nel 1993 fui coinvolto in un accoltellamento.
Immaginiamo un po’ se due persone si possono definire amici per aver condiviso la stessa cella per qualche ora». Però, qualche guaio con la giustizia l’ha avuto anche lei?
«Non mi devo nascondere dietro un dito. Proprio perché ho dei precedenti penali credo che mi abbiano affibbiato l’etichetta di boss. In realtà, quando ho sbagliato ho pagato ammettendo le mie colpe: alla fine degli anni ’80 vivevo in un’altra regione e mi trovarono una pistola a casa. Però, da qui ad essere accusato di reati per i quali è previsto il 416 bis (1999) ora in appello e il 41 bis (terminato) senza che ho commesso nulla ma soltanto perché il mio nome è stato fatto da alcuni confidenti, credo sia un’enorme ingiustizia. Anzi, dirò di più: se qualcuno che non sia confidente mi ha visto commettere un reato, può tranquillamente rivolgersi alle forze dell’ordine e io sono pronto a pagare senza sconto di pena. La mia è come se fosse una sorta di autodenuncia».
Tralasciamo l’aspetto di Cosentino e Cossidente, per rimanere in zona, Policoro e dintorni: in che rapporti sta con i Mitidieri e gli Scarcia?
«Con i primi non ho mai avuto rapporti. Viviamo in un Comune piccolo, quando incrociamo gli sguardi buongiorno e buonasera; con i secondi agli inizi degli anni ’90 ci fu un accoltellamento e immagini un po’ come possono essere i rapporti. Poi Giuseppe Scarcia si è pentito e mi ha accusato, ma si è sbugiardato lui stesso perché in quel periodo in cui lui mi accusa di un altro reato (non l’accoltellamento ndr) io stavo scontando una pena, in questo caso giusta e lo detto anche prima, a Roma. Questa è la credibilità di certa gente».
Che mi dice di Santo Bevilacqua?
«Lui, altro pentito, dice di avermi fatto entrare nell’organizzazione dei Basilischi “battezzandomi”, ma è ridicolo e addirittura smentisce il Danese, altro pentito. Uno dice che gli ho dato un fucile a canne mozze lungo ed eravamo in quattro; l’altro dice a canne mozza corto ed eravamo un due. Fatto sta che il fucile non è mai stato trovato. Si capisce perché sono imputato: non per aver commesso qualcosa, ma perchè mi si accusa senza prove e soprattutto chi lo fa non ha la credibilità di altri pentiti che nella storia hanno contribuito a dare un duro colpo alla mafia. Quella vera. Per quanto mi riguarda questa storia dei Basilischi la leggo periodicamente sui giornali e mi correva l’obbligo dichiarare la mia posizione. L’ho detto prima: nella vita ho commesso qualche errore ed ho pagato; ma l’etichetta di mafioso la rifiuto, non mi appartiene».
Come vive?
«Lavoro nel campo dell’ortofrutta molte ore della giornata, figuriamoci se avrei del tempo per dedicarmi ad un’organizzazione criminale, e sto a contatto con tanti colleghi, in alcuni periodi dell’anno anche 150, e possono testimoniare quello che faccio. Sono un dipendente assunto a tempo indeterminato e vivo una vita normalissima: non ho ville o macchine di grossa cilindrata, né vado in giro con abiti firmati. E anche qui invito le forze dell’ordine a farmi un accertamento patrimoniale. Non ho nemmeno presentato la domanda per le case popolari per evitare che qualcuno mi additasse di essere privilegiato. Lavoro dal 1977 facendo di tutto, anche volontariato con la Croce d’Oro di Policoro e questo non lo dice nessuno, trasportando malati in varie zone d’Italia (600 viaggi in tutto), e molti gratis come autista. Poi per colpa dei soliti pentiti nel 1999 sono accusato di associazione a delinquere di stampo mafioso e vengo condannato al 416 bis. Mi tolgono la patente e non ho potuto nemmeno concorrere ad un posto come autista da qualche parte. Dal 2003 ho trovato lavoro stabilmente nel settore dell’agricoltura e vivo modestamente. La cosa che mi rammarica di più, oltre alle accuse ignominiose attribuitemi, è che dopo il lavoro non posso più uscire tanto da non conoscere nemmeno più le strade dei nuovi quartieri di Policoro».
Perché?
«Se no qualcuno dice che sono il più intelligente di tutti e cammino con l’aria da boss mafioso».
Gabriele Elia
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