Il presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana
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MA LEI lo sa che così potrebbe commettere un reato? «Dovevo scegliere quale commettere: se abbandonare pazienti e personale o se invece continuare a venire al lavoro e rischiare di contagiarli. Ho la febbre e magari sarò pure positiva al tampone, vorrei tanto tornarmene a casa. Ma non posso scendere dalla nave, non sono Schettino».
A parlare è la direttrice di una struttura sanitaria lombarda. Il tono disperato, il timbro della voce affranto, avvilito. Lo sfogo di chi non regge più la pressione, lo stress, a rischio di mettere a rischio sé stessa e l’intera casa di riposo: «Siamo rimasti in pochi, sono sola nella mia stanza, nessuno mi costringe. La mia coscienza non mi consente di lasciare soli questi quattro gatti del nostro personale risultati negativi e rimasti al lavoro».
Al tempo del coronavirus accade anche questo. Disperazione e follia collettiva. Ma lei si rende conto? «Ho scritto in tutte le lingue che così non si può più andare avanti. Siamo a corto di personale: mi servono infermieri, un medico, non riesco a trovarlo. Nella mia struttura ci sono ospiti che hanno, sia pure in forma lieve, il coronavirus. Se dipendesse da me urlerei al mondo quello che stiamo vivendo, ci metterei la faccia, andrei in tv, ma non dipende da me. Però tutti devono sapere il dramma che stiamo vivendo in questi giorni. Appena potevamo abbiamo effettuato il tampone al personale. Un buon 30% è risultato positivo pur trattandosi in gran parte di asintomatici. Siamo stati corretti, li abbiamo lasciati a casa e ora non sappiamo come fare».
PAZIENTI NEGATIVI RISULTATI POSITIVI
Una confessione shock, sia pure coperta dall’anonimato. Fa capire che si è arrivati a un punto di non ritorno. Tutto è cominciato quando sono arrivati i primi pazienti mandati dalla Regione Lombardia, in attuazione della ormai famigerata delibera 8 marzo XI/20906. «Dalla cartella clinica risultavano negativi – lei prosegue – ma quando qualche giorno dopo abbiamo fatto i test è venuto fuori che erano positivi. Qui ci sono spazi comuni, a partire dalla mensa, avremmo dovuto ricoverali in un ospedale. Non abbiamo potuto. Una successiva delibera della Regione, la 3018 del 30 marzo, ce l’ha impedito. Cosa dovevamo fare? Me lo dice? Prima ce li mandano poi non li rivogliono. Sarebbe stato meglio se sin dall’inizio avessimo saputo che erano positivi, avremmo potuto isolarli subito». Nei giorni dell’onda alta, dei pronto soccorso presi d’assalto, non era semplice prendere decisioni. «…si, ma faccio fatica a pensare che sviste così madornali si possano fare in buonafede…».
LA LETTERA-DENUNCIA
Sarà per questo, per la coazione a ripetere errori su errori, che i presidenti dei sei associazione lombarde – Agespi, Anaste, Aris, Arlea, Anffas, Aci Welfare e Uneba – hanno inviato – al presidente della Regione Lombardia, Attilio Fontana, all’assessore al Welfare Giulio Gallera e per conoscenza al commissario della Protezione civile Angelo Borrelli e al presidente dell’Anci Lombardia Mauro Guerra – una lettera che è poco meno di una denuncia in carta bollata. Un elenco dettagliato degli strafalcioni e delle contraddizioni. Mancato rispetto delle linee guide, mancata fornitura di dispositivi, zero tamponi. «Qualora la Regione Lombardia – è la minaccia contenuta nella lettera – non si assumesse immediatamente tali oneri, saremo costretti a rivolgerci alle autorità competenti per tutelare la salute e la vita di operatori e ospiti, nonché gli enti gestori, da successivi e ripercussioni di ordine civilistico e penalistico alle quali il vostro diniego o il vostro silenzio ci potrebbe esporre».
LOMBARDIA “CASO EUROPEO”
E la Regione? «Non sono venuti mai, neanche una volta a vedere. In compenso ci hanno sommerso di questionari Excel, ho mandato richieste ovunque: Protezione civile, Ordine di Malta, Croce Rossa, Regione, ho esaurito la mia agenda personale nella speranza che prima o poi qualcuno ci mandi un medico». Il dato è ancora parziale: nelle Rsa lombarde sono morti finora oltre 3000 anziani, il 53,4 per Codiv-19 e sospetto Codiv-19. Numeri che non hanno raffronto con le altre regioni.
Che lo si voglia o no, e al netto di qualsiasi disputa politica, La Lombardia è un “caso europeo” non solo italiano. “Si deve purtroppo constatare – citiamo ancora la lettera delle Rsa – che in queste otto settimane abbiamo assistito al moltiplicarsi di mail, note, circolari, linee guida, a volte contrastanti tra loro e/o con le disposizioni del governo centrale o il ritorno su precedenti decisioni o ad interim. Tutto ciò non ha consentito agli enti di mettere bene a fuoco la situazione e di garantire piena razionalità e permanente continuità nei modi e nei tempi di vigilanza». Si lamenta la “totale mancanza di un piano pandemico”. Si fa presente che i casi di infezioni “non endemiche che esulano dalle precauzioni standard sono di competenza del Dipartimento di protezione delle Ats”, che sono a loro volta emanazioni territoriali della Regione.
La maggior parte delle strutture ha dovuto procedere in totale autonomia, con grande difficoltà. Una su tutti: la problematica dei tamponi. Il personale che potrebbe rientrare dalla malattia dopo aver terminato il periodo di quarantena non può farlo perché non si riesce a effettuare il doppio test prima del rintegro. Ordini e contrordini hanno reso difficile la gestione dei pazienti Codiv e sospetti Codiv, considerati a tutti gli effetti malati acuti o pre-acuti. In teoria ai primi sintomi le Rsa e le Rsd, ovvero le strutture che ospitano disabili, dovrebbero ricoverarli attraverso corsie preferenziali negli ospedali o in una struttura adeguata all’isolamento. Ma questo non è possibile e non avviene.
Poi c’è la questione dei dispositivi di protezione, un nodo ancora irrisolto. «Sul mercato privato i prezzi, quando reperibili – è l’altro capo d’accusa contenuto nel documento – nel giro di poche settimane sono cresciuti in maniera esponenziale, evidenziando una chiara speculazione». Si sono rilevati frequenti blocchi e requisizioni alla dogana che hanno aggravato la penuria di materiale e ancora una volta dalla Regione sono arrivate forniture una tantum, insufficienti. Stiamo parlando di circa 61 mila posti letto su base regionale e circa 30 mila operatori. Per sopperire al fabbisogno servirebbero 150 mila pezzi per turno, 450 mila al giorno, 15 milioni al mese. Da qui la richiesta di “un piano straordinario di acquisizioni che permetta di superare questa fase”. Le Rsa lombarde non risparmiano critiche neanche alla Centrale unica dei trasferimenti, la cabina di regia che avrebbe dovuto smistare i pazienti nelle strutture a seconda delle caratteristiche e della diagnosi, “non ha mai funzionato perfettamente”, non tutti si sono registrati”. Un cahièr de doleance sterminato, che si conclude con la richiesta di un tavolo di lavoro comune con Regione Lombardia e Protezione civile.
LA PROVINCIA CON PIÙ CONTAGI ORA HA FRETTA DI RIAPRIRE
La schizofrenia è l’unico elemento continuo e coerente. E così mentre si parla e si litiga sulla fine del lockdown e riapertura , Milano, con 297 nuovi contagi, resta di gran lunga la provincia con il più alto tasso di contagi. L’area metropolitana è arrivata a 16.112 positivi, la Regione a 66.971, +735 rispetto al giorno precedente. Numeri alla mano la decrescita sembra lontana. Il contagio non si è mai fermato. E neanche le imprese che riapriranno senza aver mai chiuso i cancelli.
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