Il Ministro Roberto Gualtieri
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Due decreti di misure economiche alle spalle, un altro in arrivo. Centinaia di pagine e fiumi di inchiostro per evitare la catastrofe economica prospettata dal Coronavirus, che per ora sono rimasti appunto questo: carta e inchiostro. Se si escludono i 400 milioni di buoni per la spesa erogati dai Comuni e il bonus da 600 euro alle partite Iva, erogati dall’Inps in questi giorni, il resto è fermo.
Il decreto liquidità langue, stretto nelle maglie di autorizzazioni, controlli e divieti che impediscono ad imprese medie e grandi di accedere al credito che potrebbe salvarle dalla chiusura.
Già, la chiusura. Una parola impronunciabile, in contraddizione con quella riapertura diventata ormai ossessione collettiva.
A CARO PREZZO
Ogni mese di lockdown, di serrata per dirla in italiano, costa all’Italia secondo il calcolo della Svimez circa 47 miliardi. L’equivalente di una legge di bilancio. Di questi circa 37 appartengono al Centro-Nord, sede della maggior parte delle imprese e delle industrie, e 10 al Mezzogiorno. Le condizioni di partenza delle due metà di Italia non sono però le stesse. Nel complesso, l’Italia sconta il non essersi mai ripresa davvero dalle crisi del 2009 e del 2011. A differenza degli altri Paesi europei, il prodotto interno lordo nazionale è ancora sotto i livelli pre-crisi: -2% per quanto riguarda il Nord e -10% per il Sud.
A tutto questo si dovrà aggiungere l’impatto del Covid-19. Nelle stime Svimez, ottimistiche rispetto a quelle di Bankitalia e del Fondo monetario internazionale, il Paese è destinato a perdere l’8,4% del pil (8,5% al Nord e 7,9% al Sud).
IL SUD SPROFONDA
La parte più debole del Paese quindi, nella migliore delle ipotesi, si troverebbe quasi 20 punti di pil sotto i livelli pre-crisi.
Di questo scenario bisogna tenere conto quando si parla di liquidità. I prestiti per oltre 500 miliardi, garanti sulla carta con il dl liquidità varato dal Governo, servono da Nord a Sud. Ma le tempistiche non sono un aspetto secondario. «Le imprese vanno aiutate subito» è l’imperativo della neopresidente della commissione bicamerale di inchiesta sulle banche, Carla Ruocco, intervistata appena due giorni fa da questo giornale. «Oggi, non domani – scandisce la deputata – e le nostre banche che dispongono di liquidità, perché gestiscono i risparmi e i conti correnti degli italiani, devono veicolarla nel tempo tecnico più veloce possibile. Purtroppo, però, abbiamo un sistema di erogazione del credito bancocentrico». Un “bancocentrismo” che infatti non è stato scalfito neanche dal dl liquidità. Gli unici soldi erogati con facilità sono quelli dei prestiti fino a 25mila euro, fino a un importo massimo pari al 10% del fatturato. Briciole, insomma.
Per le cifre pesanti, quelle che potrebbero fare la differenza, la trafila è lunga. La concessione è subordinata alla valutazione del merito creditizio da parte delle banche basata “sulla situazione finanziaria pre-crisi e non sull’andamento degli ultimi mesi, segnati dal Covid-19”. Una formula volutamente generica, che lascia tutto il potere in mano alle banche. Per molte imprese, specialmente al Sud, questo vuol dire una sola cosa: niente prestiti prima, niente prestiti ora.
GLI ESCLUSI
Il decreto stabilisce di non concedere le garanzie statali a chi, anteriormente al 30 gennaio 2020, era titolare di sofferenze, vale a dire crediti la cui riscossione non è certa a causa della situazione di insolvenza dei debitori, partite incagliate e; inadempienze probabili. Si tratta di situazioni che riguardano più o meno l’80% delle aziende italiane.
Nel Mezzogiorno, che come già detto è ancora stretto nella morsa della precedente crisi economica, questa situazione riguarda la stragrande maggioranza delle aziende.
Se si escludono colossi con sedi al Sud, come Fiat o Eni, l’accesso al credito sarà praticamente impossibile. In pratica si avrà una parte dell’Italia impossibilitata a ripartire, annunci di Attilio Fontana a parte, per l’elevato numero di contagi e un’altra incapace di sopperire perché completamente priva di qualsiasi sostegno da parte dello Stato. Ecco perché quella perdita di 8,4 punti di pil potrebbe essere, per assurdo, il migliore dei mondi possibili.Speriamo di no.
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