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di CARLO SPARTACO CAPOGRECO
La Germania hitleriana, col contributo e l’acquiescenza di molti e nel silenzio pressoché totale del mondo intero, tra il 1939 e il 1945, ha assassinato circa sei milioni di ebrei. Quel crimine inaudito e imparagonabile ad altri – la Shoah – che ha avuto come fulcro l’omicidio di massa, è diventato un nodo centrale del vivere e del pensare nel mondo contemporaneo; un evento che diventa sempre più importante mano a mano che ci si allontana temporalmente da esso. Hannah Arendt, già in un suo articolo del 1946, sottolineò la necessità di parlare della Shoah, di ricordarla il più possibile: «Perché – affermava la grande pensatrice – quel crimine ha cambiato l’aria che respiriamo e il destino politico dell’umanità». Sappiamo, però, che a quell’ammonimento seguirono lunghi decenni di silenzio e di rimozioni, prima che “si parlasse”; che si arrivasse ad una conoscenza piuttosto generalizzata, ad un’elaborazione e ad un dibattito diffuso sullo sterminio programmato degli ebrei d’Europa. Ma oggi, serve ancora parlare della Shoah? In Italia, per dare risposta a questa domanda per niente scontata, è imprescindibile fare alcune considerazioni sull’impatto che ha determinato nella scuola e nell’intera società l’istituzione del Giorno della Memoria e del “dovere del ricordo” attraverso la legge 211 del luglio 2000. Da allora assistiamo nel nostro paese ad un curioso paradosso: mentre nelle scuole diminuisce (e continua ancora a diminuire, basta dare un’occhiata alla Riforma Gelmini) il tempo dedicato all’insegnamento della storia, aumenta di continuo il pressing istituzionale sulle iniziative da mettere in atto in relazione al Giorno della Memoria. Laddove l’insegnamento della Shoah e le innumerevoli “celebrazioni” ad essa collegate stanno diventando troppo spesso (dentro e fuori le scuole) l’occasione per fare lezioni di morale, generalmente avulse dal contesto storico di riferimento. E’ sufficiente sfogliare una qualsiasi rassegna stampa in prossimità della Giornata della Memoria, per rendersi conto di come «l’iterazione ormai ossessiva dell’imperativo collettivo volto alla commemorazione delle vittime stia soffocando ogni ragionevole esigenza di stimolare uno studio critico della storia, che tenga conto del confronto tra le fonti e delle recenti acquisizioni di una bibliografia vastissima» (Laura Fontana). Obiettivamente, nell’Italia di oggi, l’ossessione su Auschwitz sta facendo dimenticare come ai Lager ci si è arrivati, o cosa sia stato il fascismo nell’Europa del Novecento. E se si continuerà su questa strada, non servirà parlare ancora della Shoah. Per dare un senso al ricordo delle vittime dello sterminio, occorre cominciare a guardare la Shoah come evento storico e non più come “frutto della follia” o “scontro tra bene e male”. Poiché, effettivamente, essa è stata un lucido atto politico: un prodotto della “modernità reazionaria”, per usare la definizione scelta da Jeffrey Herf per il nazismo, ma appropriata anche per il fascismo e persino per il terrorismo kamikaze dell’11 settembre. E, per dare credibilità e futuro al nostro Giorno della Memoria, occorre superare l’impianto “asettico” e deresponsabilizzante della legge 211/2000, che non fa riferimento alcuno alle responsabilità italiane/fasciste. Poiché è vero che un numero considerevole di connazionali rischiò la vita per proteggere degli ebrei perseguitati, ma il popolo italiano è stato anche collaborazionista dei nazisti e spettatore passivo di segregazioni e deportazioni di ebrei. Noi italiani, per “dare un senso” alla Shoah e compiere il necessario processo di storicizzazione e “nostrificazione” della stessa, abbiamo molto d’apprendere dalla Francia, una nazione che, nella Seconda guerra mondiale, ha avuto un ruolo abbastanza simile a quello dell’Italia, ma che poi, assai meglio di noi, ha saputo elaborare il passato collaborazionista e farsi carico delle responsabilità nazionali. Anche a un seminario del “Memorial de la Shoah” di Parigi, al quale sono intervenuto pochi giorni fa, ci si è chiesti se serva ancora parlare della Shoah. E Georges Bensoussan, uno dei massimi studiosi di Auschwitz, non ha esitato, evidentemente, a rispondere in senso affermativo. Ha invitato però, ancora una volta, a considerare la Shoah come un evento storico: non il frutto dell’irrazionale, bensì di tragiche scelte razionali e politiche che – a completa disfatta dell’illuminismo – hanno guardato al genere umano assimilandolo ad un gregge. Hanno portato alla negazione radicale dell’umanità sotto una duplice veste: l’assassinio del popolo ebraico in quanto tale e, in senso più ampio, la crisi dello statuto stesso di essere umano. Dunque, certo che serve ancora parlare della Shoah. Ma – ora che stanno per lasciarci gli ultimi testimoni – siamo quanto mai tenuti a darle un senso! E non a ossessionare i giovani con la conta dei cadaveri ammucchiati o le immagini degli infami esperimenti di Mengele, calpestando il diritto dei bambini e dei ragazzi di essere salvaguardati dall’orrore. L’enfatizzazione sull’orrore dei Lager – come si legge in uno studio promosso dalla Commissione Europea che sarà presentato stamattina all’“University Club” di Arcavacata dalla benemerita Associazione ex consiglieri regionali presieduta da Stefano Priolo – «invece di sollecitare una indispensabile apertura cognitiva alla problematica umana del dolore e della violenza dell’uomo (di ogni uomo) sull’uomo, accentua la loro attitudine a semplificare la realtà creando stereotipi (ad esempio i “tedeschi spietati”), a non assumersi le proprie responsabilità (sono gli altri ad essere cattivi), e ad esorcizzare, invece che comprendere, le tragedie della storia umana».

*storico della Seconda guerra mondiale
coautore dell’opera “La Shoah in Italia”, Utet 2010

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