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IL silenzio che abita le strade, i giardini, le piazze delle nostre città, e soprattutto le nostre lunghe notti insonni è in realtà popolato dalle voci, dai volti, dai sorrisi e dagli sguardi del mondo di ieri. I giorni e le notti della quarantena appaiono come risucchiati in una sorta di bolla dove suoni, visioni, parole, colori, emozioni galleggiano in uno stato di apparente apnea “artificiale”.
Se anche solo per un attimo si chiudono gli occhi e si prova a immaginare come potrebbe essere la nostra quotidianità senza musica, senza teatro, senza cinema, senza musei, senza parchi archeologici, senza biblioteche… ci si accorge che in realtà quel silenzio è “baro”, è un trucco, e la vita in sottofondo fa rumore! Al netto di quel brusio di fondo, ora la nostra sarebbe una vita “senza”.
Visione onirica questa che mette i brividi nell’attimo stesso in cui si affaccia tra le paure (tante e alcune legittimamente prioritarie come la vita e la salute) che puntellano le nostre giornate messe sotto assedio dal Coronavirus. Un attimo solo e quel pensiero di una vita “afona” lo scacci via subito, come si fa con le mosche moleste che turbano il sonno e svegliano dai sogni.
Però, proprio in questi giorni in cui responsabilmente occorre restare nelle nostre case, in questo tempo che continua ad andar via fregandosene di questi pezzi di vita frantumati e rimandati a data da destinarsi, mai come in questo momento i suoni, le visioni, le parole, i colori, le forme e, dunque, le emozioni ci tengono svegli. Vigili.
Le modalità sono necessariamente diverse: social, canali multimediali e piccolo schermo sono diventati i nostri virtuali teatri, cinema, librerie, musei, parchi archeologi, piazze, auditorium, librerie e via dicendo. Dalle dirette su Instagram a Facebook ai cinguettii su Twitter almeno una volta al giorno, ci si collega con qualcosa che ci ricorda la nostra vita di prima. E se provassimo a chiedere, in molti saprebbero indicare quale è stato l’ultimo concerto a cui si è andati, l’ultimo spettacolo di prosa a cui si è assistito, l’ultimo film al cinema visto, l’ultima mostra al museo visitata…
È una sorta di ricerca del tempo perduto per scomodare Proust che, però, ci fa diventare tutti creditori. In debito verso quel mare di gente che quelle emozioni di note, di palchi, di arte, di libri e cultura ha contribuito a mantenere vivo. Vite poco conosciute – come spesso sono quelle dei lavoratori dello Spettacolo, della Cultura e dell’Arte in senso lato – che accanto a quelle dei protagonisti noti, degli artisti che hanno conquistato un posto al sole, dei frontman che sono entrati nella Storia, costituiscono l’affresco sfaccettato delle emozioni di un caleidoscopico palcoscenico.
Una moltitudine di persone che lavorano dietro le quinte o che anche quando son come “defilati” sul palco – i musicisti di un’orchestra quando suonano nella buca o i ballerini di seconda fila, per dire – hanno le chiavi per far funzionare il meccanismo della Bellezza.
Un brulicante universo fatto anche di tecnici audio e luci, di responsabili di palco, di custodi di musei e parchi, di addetti ai biglietti o all’accoglienza nei foyer, di persone che allestiscono le scene e poi le smontano, di altre che trasportano le scenografie da un teatro all’altro, di montatori, doppiatori, truccatori, sarte, costumisti, accordatori… Senza dimenticare i librai o chi ci guida nei musei andando per mostre e via dicendo. Davvero difficile se non impossibile ricordare tutte le figure che ruotano intorno al mondo dello Spettacolo e della Cultura e dell’Arte.
Se provassimo a mettere i loro volti su una grande tela potremmo ispirarci a Giuseppe Pellizza da Volpedo e al suo “Il quarto stato” (1901) . A queste persone le cui vite lavorative sono spesso precarie, va detto un grazie anche ora a riflettori spenti e dopo nel momento della ripartenza quando le luci si accenderanno nuovamente, i sipari si alzeranno sulla prosa, la musica si riprenderà la scena, qualcuno tra gli scaffali di una libreria ci consiglierà un libro, il sorriso di una guida ci accompagnerà nelle sale di un museo e da lontano si sentirà ancora una voce che dice: ciak, si gira!
E non è un caso se tra queste visioni su carta riaffiora vivido un ricordo: Andrea Camilleri al teatro greco di Siracusa, in una notte di giugno di due anni fa chiude la “Conversazione su Tiresia” con queste parole: «Mi piacerebbe che ci rincontrassimo, tutti quanti qui, in una sera come questa, tra cento anni». Allora, ecco che se si chiudono gli occhi, si ascolta il cuore e si salva la memoria non è detto che ciò non accadrà! Perché “il teatro non è il paese della realtà: ci sono alberi di cartone, palazzi di tela, un cielo di cartapesta, diamanti di vetro, oro di carta stagnola, il rosso sulla guancia, un sole che esce da sotto terra. Ma è il paese del vero: ci sono cuori umani dietro le quinte, cuori umani nella sala, cuori umani sul palco”, (Victor Hugo).
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