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di PIETRO RENDE
Noi che credevamo agli incentivi che imponemmo ancora e inutilmente nella legge sulla ristrutturazione e riconversione industriale n.675 del 1977 per una delocalizzazione produttiva nel Mezzogiorno; noi che credevamo alla riserva del 40% di partecipazioni industriali sempre nel sud; noi che leggevamo con attenzione le proposte di Bankitalia sulla possibile attrattività e competitività delle “gabbie salariali” legate alla produttività mentre adesso alla Newco si predispongono più straordinari e salari; noi che aspettavamo sempre leggi speciali e chiedevamo al Comitato portuale di Gioia Tauro più parametri competitivi, ecc.. potremmo parafrasare all’infinito la filastrocca televisiva dei “Migliori anni della nostra vita”, limitiamoci, per ora, a una sola domanda: cosa pensiamo della rivoluzione Marchionne, che butta alle ortiche quasi tutto l’armamentario meridionalistico (dalla 488 alla fiscalità di vantaggio) e si limita a regole intramoenia della Fabbrica Globale dove “il mercato sostituisce la politica”? Se basta un nuovo modello di relazioni industriali a competere nel mondo e realizzare i vantaggi della delocalizzazione in casa propria, a cosa serve più una politica di programmazione industriale, un contratto nazionale separato da quello destinato ai piccoli imprenditori metallurgici e metalmeccanici rappresentati dal vice di Confindustria, Bombassei? E a ridurre il dualismo Nord/Sud serve più un nuovo Welfare, ancorché compatibile con la sopravvivenza della democrazia, o un rimedio politico di Grande Coalizione, come in Germania, per controllare e contenere gli estremismi radicali che il Referendum di Mirafiori ha alimentato, come quello, pericolosissimo, della divisione fra operai e impiegati? Ci mancava poi la spiegazione di Msc sulla crisi competitiva di Gioia Tauro – il maggiore decentramento terziario nel sud del Mediterraneo – che lamenta «una produttività molto bassa inferiore anche del 20-30% rispetto alla media europea e (che) poi c’è un alto tasso di assenteismo». Prendiamo, allora fra i commenti più perspicaci quello di Sergio Ricolfi, proprio sulla Stampa di Torino del 16 gennaio, che ammonisce sui limiti della Svolta e rinvia al buon funzionamento dello Stato di diritto, soprattutto nel farraginoso funzionamento della giustizia civile sulle cause di lavoro e nella legalità degli affari, il buon esito di qualsiasi buona intenzione rivolta alla crescita dello sviluppo, la base di ogni problema. Per non parlare del credito e del rapporto banche-imprese, che potrebbe pure ricondursi a una logica consociativa, oppure delle infrastrutture pure in teoria gestibili da project finance a capitale misto banche-imprese. Ma, per non limitarci a Sanità e Istruzione dove il ruolo dello Stato non viene messo in discussione, non si può certo pensare p.e. di risolvere il “credit crunch” o affollamento e piazzamento di richieste creditizie finchè lo Stato ha un debito pubblico che finanzia con deficit annui e interessi che paga sui Bot che le Banche acquistano sottraendo risorse finanziarie e risparmio alla offerta creditizia disponibile per le imprese. Inoltre ricordiamoci che solo la difesa e l’impiego dell’euro sul dollaro può proteggere da un’inflazione potenzialmente altissima un paese come l’Italia costretto a comprare dall’estero le materie prime che non possiede, a cominciare dal petrolio. A tale proposito non si può continuare a ignorare quanto sta accadendo sulla sponda nordafricana non solo per ragioni umanitarie o preoccupazioni economiche ma soprattutto per le inquietanti prospettive politiche che aggravano i già pesanti conflitti religiosi esistenti che fanno da causa e sfondo all’inesorabile declino del Mediterraneo, il mare nostrum! Dopo l’insuccesso del Programma di Barcellona del 1995 e seguenti, dopo il deludente esordio dell’Unione per (e non del) il Mediterraneo, tante volte abbiamo avvertito la superficialità di eventi anche regionali che non andavano oltre un “Carro di Tespi” , una parata di semi-celebrità mediatiche estranee, che vivono al di fuori del mondo arabo e islamico, ospiti di iniziative che allo spegnimento dei costosi riflettori non lasciano niente. Questi eventi non sono minimamente serviti ad avvertire le condizioni di vera fame in cui versano i giovani del Maghreb che poi giungono nella sponda nord come cavallette. Se ”Carmina non dant panem”, come già sappiamo, non possiamo certo attendere le immagini televisive per ascoltare gli spari e osservare gli scontri di muri che non cadono ma si stanno alzando, nonostante la globalizzazione che, per il suo deficit di democrazia, arricchisce quasi esclusivamente i più ricchi e le medie statistiche alla Trilussa sulle soglie di povertà. Nessuno parla più di un Piano Marshall per il Nordafrica che consentirebbe uno sviluppo del Mediterraneo senza inflazione perché innalzerebbe la vita di popoli niente affatto consumistici. Forse ingenuamente si pensa di esportare la democrazia con la Coca Cola dimenticando che senza il rispetto dei diritti umani, religiosi e politici, non ci può essere futuro economico che duri.

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