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di DOMENICO LOGOZZO
Povertà e mistificazioni. Gli ultimi spinti sempre più in giù. Convivenza civile e democrazia in serio pericolo: colpa della politica delle disuguaglianze. Parlano le statistiche. Nel Sud sono quasi l’80% i “soggettivamente poveri”, secondo i rilevamenti compiuti dell’Isae. È un dato emblematico della grande sofferenza, perché misura lo stato d’animo e la sensazione personale di disagio della popolazione. La “povertà assoluta” riscontrata invece dall’Istat a partire dal 2009 supera abbondantemente il 70%. Non c’è dunque nessun sostanziale miglioramento. Per rendersene conto basta guardare la realtà che ci circonda. Senza lenti deformanti, né superficiali e fuorvianti analisi “di parte”, come purtroppo certi “funamboli” cercano di spacciare per verità assolute inconcepibili visioni ottimistiche, previsioni rosee senza basi. Un contributo importante alla comprensione di quella che è la situazione economica e sociale dell’Italia di oggi ,viene da “Poveri, noi” l’ultimo libro scritto da Marco Revelli (Giulio Einaudi editore). In 127 pagine, tra statistiche e storie di cronaca, fotografa con l’obiettivo della lucida e onesta realtà “l’Italia che non è come ce la raccontano”. E sì, “perchè abbiamo creduto di crescere e stiamo declinando; la nostra presunta “modernizzazione” è un piano inclinato verso la fragilità e l’arretratezza. E nello spazio sempre più ampio che si apre tra presunto benessere e fatica quotidiana del vivere, crescono l’invidia, i rancori, le intolleranze”. Revelli giunge perfino a sostenere che ci troviamo in “un Paese in cui forse per la prima volta nella storia il motto del Boccaccio: Solo la miseria è senza invidia, non è più valido”. Capito a che livelli siamo scesi? Davvero troppo bassi. L’indicatore europeo della popolazione a rischio di povertà pone l’Italia in una delle peggiori posizioni nell’Europa a 25. Sta particolarmente male il Sud. E peggio ancora la Calabria. Cresce anche di un buon 15 per cento la percentuale di coloro che dichiarano di “arrivare a fine mese con grande difficoltà”. È molto dura la critica di Revelli nei confronti della politica e non risparmia il mondo dell’informazione. Scrive: “So benissimo che la povertà interessa poco. Lo so per averlo sperimentato giorno dopo giorno nel triennio in cui mi è capitato di presiedere la Commissione d’indagine sull’esclusione sociale (Cies), detta anche “Commissione povertà”, facente capo al ministero competente per le Politiche sociali. E’ spiacevole a dirsi, ma è così. Interessa poco al sistema dei media, perché essendo cosa grave, e preoccupante, non lascia spazio al gossip. E interessa poco anche alla politica. A quella del governo come a quella dell’opposizione. Non perché i poveri non votino (solo le frange più estreme del “pianeta povertà”, i migranti, i nomadi, i senza dimora, non hanno o non esercitato il diritto al voto). Ma perché in assenza di politiche credibili, di contrasto e di risposta, la povertà non è un item quotabile alla borsa del consenso politico”. Conoscere per capire e porre rimedio a tutte le colpevoli inadempienze. Troppe negligenze, assurdi atteggiamenti di indifferenza che talvolta sfiora la malvagità. “La “fotografia” della povertà – sottolinea Revelli, che insegna Scienza della politica dell’Università del Piemonte Orientale – ci dice molto sul profilo – non solo sociale, ma anche politico e, perché no ? morale – del nostro Paese. Ci permette senza dubbio di capire meglio questa Italia, per molti versi sempre più opaca nei suoi movimenti profondi, e sempre meno decifrabile con le tradizionali categorie dell’analisi politica. Ci dice, per esempio, quanto sia fragile la base su cui poggia l’intera piramide sociale: lo zoccolo duro più spesso ed esteso su cui dovrebbe reggersi tutto il resto. Quanto precario, e incerto, con il confine tra i “salvati” e i “sommersi” troppo mobile e fluttuante per assicurare una qualche stabilità sociale ed esistenziale”. Eppure c’è chi fa vedere, vorrebbe far vedere un’altra Italia. E parla un linguaggio che Revelli definisce “fantasmagorico, ammiccante, che proietta sul grande schermo dell’immaginario collettivo e sul piccolo schermo dell’affabulazione televisiva la rappresentazione di un benessere da piani alti. I simboli di un’ostentata opulenza. Comunque il ritratto rassicurante di chi crede di essersi accomodato tra i primi, alimentato non solo dall’illusionismo “allucinatorio” del grande narratore che guida il governo, ma da buona parte del sistema mediatico e del suo indotto politico”. Giusto e doveroso richiamo alla visione della realtà. Triste e amara quella della Calabria eternamente ingannata. Ma ci sono per fortuna uomini illuminati e giornalisti che con onestà intellettuale raccontano con coraggio e senza condizionamenti le vicende calabresi. Senza bavagli. Con professionalità. E fanno bene a chiarire il ruolo libero e indipendente dell’informazione. Sempre. Il dovere di raccontare la verità e di fornire ai lettori il maggior numero possibile di elementi certi per far comprendere situazioni delicate e complesse. Bene ha fatto il direttore Matteo Cosenza sul Quotidiano di venerdì, a sgomberare il campo da qualsiasi interpretazione arbitraria della vicenda del drammatico suicidio dell’alta funzionaria del comune di Reggio Calabria. L’opinione pubblica deve sapere. Tutto e bene. Tempestivamente. Le lezioni si danno. Non si prendono. Nella regione più bistrattata e umiliata d’Italia ci sono giornalisti con la schiena dritta. E c’è stato un giornale – appunto il Quotidiano – che ha avuto la capacità di portare in piazza a Reggio Calabria decine e decine di migliaia di calabresi per protestare contro la mafia. Alla grande stampa è però “sfuggita” l’importanza della notizia. L’informazione libera è democrazia, i processi mediatici sono ben altra cosa. Le sentenze si emettono soltanto dentro le aule dei tribunali. E su questo non si può, né si deve fare confusione ! Così come molto chiaro è il finale del libro di Revelli sul rapporto tra potenti e servi: “Un Paese nel quale una parte consistente della popolazione cessi di considerare diritto pubblicamente garantito la propria aspirazione a una vita degna, finisce inevitabilmente per trasformare il gioco sociale e politico in uno scambio diseguale, tra chi è costretto a chiedere “protezione” e chi, in cambio, pretenderà “fedeltà”; tra chi,” in basso”, sa di dover dipendere dalla disponibilità altrui e chi, “in alto”, sa di poter contare sulla dedizione altrui. Nè l’una – la discrezionalità del potenti – né l’altra – la dedizione dei servi – appartengono allo statuto di ciò che finora è stato inteso come democrazia”.
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