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di PARIDE LEPORACE
C’è uno storico editoriale di Montanelli dal titolo “Finalmente!”
pubblicato il 23 dicembre 1994 su “La Voce”, quotidiano fondato da Indro per non piegar la schiena al Cavaliere. Il direttore urlava allora a pieni polmoni quel “finalmente” perché Berlusconi rimetteva il mandato a Scalfaro e “finalmente si potrà ricominciare a parlare di politica”. Ma l’ottuagenario giornalista di Fucecchio era scaltro e furbo fiorentino e la chiusa di sicurezza recitava questo apologo: “e al diavolo il diavolo che, rimpiattato sotto il tavolo, ci mormora ghignando: «Ma sei proprio sicuro che si tratti di un finalmente?». Non era un finalmente, quel 1994. E non è stato un finalmente ieri. Quello che sconcerta è che quel che chiosava Montanelli per otto mesi di governo vale ancora oggi a 16
anni di distanza. Cito per dimostrazione: “Si parla solamente di Berlusconi. Se sia un uomo veramente nuovo, o un lascito di quelli vecchi”. Già allora ci si chiedeva “se recitasse bene o male la parte di anfitrione quando riceveva i Grandi della Terra (e quali barzellette da fureria raccontasse al loro orecchio, come purtroppo è accaduto)”. Oggi come allora Berlusconi. Sempre Berlusconi. Solo Berlusconi. Montanelli s’illudeva di essersi liberato da quell’ossessione patologica di pro e contro per ricominciare a parlar di finanza pubblica e non dei problemi di Berlusconi. Il Cavaliere in questi sedici anni è stato tutti noi più di quanto il Duce lo sia stato in vent’anni. Per fortuna con la differenza di libere elezioni che lo hanno fatto governare e stare all’opposizione. Plasmando a sua bassa ma telegenica figura un Paese fermo e bloccato a questo scontro dicotomico. Un paese vecchio, governato da un vecchio che si traveste da giovane.
Ieri chi si aspettava di urlare quel “finalmente” montanelliano è rimasto beffato. Esultano invece i suoi sostenitori che non sono pochi. Gente comune, imprenditori che stanno fuori da Confindustria, quelli che non pagano le tasse, quelli che non sopportano Santoro e le procure politicizzate, quelli che vogliono la Padania, quelli che sognano il Sud dei Borboni, quelli che dicono che Fini ha tradito. Provo una sana invidia per la destra europea che guarda in avanti.
Pensate che in Gran Bretagna il premier James Cameron ha chiamato il sociologo della creatività, l’americano Richard Florida, a trasformare in realtà l’idea di Big society che si fonda sulla redistribuzione del potere tra cittadini e poteri locali. Una questione molto avanzata.
La crisi oggi si aggredisce con città più inclusive e dinamiche, paesi godibili, borghi da vivere. Gli ultimi due decenni hanno segnato il boom dei creativi ma le istituzioni sono impreparate a rendere produttive l’energie che giungono da ricerca, conoscenza, tecnologia, arte. Restare ancorati ai modelli economici dell’età industriale significa aver perso. E chi tende con maggiore determinazione a quel vecchio ordine economico e sociale è proprio la sinistra.
Tendenza che affligge anche la gran parte della classe dirigente lucana
che tranne poche e rare eccezioni non riesce a capire il nuovo che avanza preoccupandosi di salvare la propria poltrona e gli sgabelli dei clientes.
Una Regione biancorossa lucana che assiste industrie e cittadini è un modello in crisi. Nonostante Berlusconi.
Il fumo acre dei lacrimogeni fiutato ieri a Montecitorio ci ha fatto respirare un’aria da emergenza greca. Nei prossimi mesi sarà ancora sempre Berlusconi il tormentone. E torneremo a votare pro e contro Berlusconi. Riprendendo questa eterna, insopportabile campagna elettorale tra chi aspetta (vanamente?) quel “finalmente” e chi s’infervora per un’icona populista che non ha mai modificato nulla.
Sempre Berlusconi. Solo Berlusconi.
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