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di FRANCO CIMINO Noi siamo tra quelli che l’hanno aiutata. Questo giornale l’ha aiutata. Siamo stati tra i primi a capire che nella lontana Birmania non era in gioco soltanto la libertà di una combattente per la liberazione del suo popolo. Non c’era l’emblema marmoreo di un Nobel già archiviato. Come il tema della Pace, che di tanto in tanto riaffiora dagli scaffali delle diplomazie internazionali. Non c’era l’eroina solitaria che si opponeva ad una dittatura tra le più feroci della storia . Quella militare, che alla forza delle armi unisce la stupidità. E’ questa assurda combinazione che trasferisce tutte le risorse di un Paese negli armamenti e nella difesa del fortilizio del potere. E nella costruzione di castelli dorati nei quali quelle facce brutte lavano le loro mani lorde di sangue. Stupidità è quella che affama il proprio popolo, convinta che senza forza fisica non possa pensare e agire. Fame di pane. E fame di cultura. Di innovazione e apertura al mondo. Fame di giustizia. Ha fatto male i calcoli ,la dittatura, pensando che la lunga prigionia potesse togliere la “bella signora” dall’attenzione mondiale. Non era per un residuo d’umanità che non l’ha assassinata, o fatta uccidere in uno dei tanti viaggi che avrebbe potuto fare all’estero. E’ stato per stupidità. L’arroganza e la presunzione di addomesticare la ribelle, viene dopo. Prima c’è l’incapacità di capire di quanta forza disponesse nel suo corpo, questa donna esile e delicata. Perché in quella donna c’è molto di più: l’intelligenza che conduce alla ragione. E questa, alla morale universale. La violenza unita alla stupidità fa del gigante un nano che scopre terrorizzato di essere sempre stato l’ombra lunga dell’immagine riflessa dal sole. E’ bastato che gli occhi della bellissima Aung , che tanti avevano già visto nelle poche immagini trasmesse in occasione del meritato premio Nobel , si poggiassero sul mondo , che una parte di questo sentisse un colpo al cuore. L’emozione per tanta “bellezza” si è trasmessa come la forza di un telegrafo, raggiungendo milioni di persone. Il suo popolo è sceso in piazza. Inizialmente con quell’esercito di tuniche arancione dei monaci tibetani. La classe colta cioè di un popolo affamato di cultura . Spirito religioso e pensiero alto, uniti in un solo corpo. Aspirazione a Dio e volontà di liberazione dell’uomo, forza morale inarrestabile contro il dominio della forza fisica. Quell’arancione è diventato rosso del loro sangue. A migliaia sono caduti sotto i colpi dei mitra o travolti dai carri armati , nella strada della Capitale. Quel sangue è giunto fin sotto le nostre case. Del mondo opulento, che si sente al riparo dentro le sue antiche false certezze. Poco a poco si è incominciato a capire che quella donna ha rotto i confini del suo Paese. Non è la rivoluzionaria sudamericana che lotta contro i capitalisti, ladri di terra e di risorse prima che di libertà. Non è soltanto il premio Nobel per la Pace lasciato nella galleria fotografica degli altri premiati. Quella donna è il simbolo di ogni lotta di liberazione. In ogni parte del mondo. Anche in quelle dell’Occidente , dove c’è chi crede ancora che di libertà siano lastricate tutte le sue strade. Liberazione della donna. Liberazione degli esseri umani dall’ignoranza. Liberazione dell’uomo dai poteri mass- mediatici ed economici. Dalla globalizzazione inumana. Dalla eterna dicotomia sociale , con i poveri da una parte e i pochi ricchi dall’altra, sempre più distanti. Liberazione da ogni forma di emarginazione, e dalla solitudine dell’individuo. Dalle guerre di religione e dai dogmi che reprimono il libero pensiero. Liberazione da ogni sfruttamento, specialmente dei bambini e della natura . Liberazione dal ricatto e dalla paura. San Suu Kyi è la prova fisica che non c’è nessuna giustificazione al cedimento morale, alla rinuncia ai principi della propria causa. La dimostrazione che non c’è mai un problema locale quando a morire sono solo persone lontane. La testimonianza che ogni morte per mano assassina, anche una sola, è la morte di tutti gli uomini. Lottare fino al sacrificio della propria vita senza cedere un millimetro della propria idealità , è l’insegnamento che questa donna impartisce al mondo intero. La sua forza. Ma anche il suo limite, se c’è ancora nel mondo chi ha paura di somigliarle un po’. La sua forza. E il suo limite, se il potere, ovunque esercitato, ha paura del suo messaggio di liberazione. Perché se un popolo ha bisogno di liberarsi dei suoi generali, l’umanità ha il dovere di liberarsi dei suoi “colonnelli”. Tutti in divisa. Doppiopetto o abiti di diversa etnia e ispirazione. Anche religiosa. Specialmente per alcune regioni di quell’”altra” civiltà. Per questo oggi siamo felici. E un poco preoccupati, ove mai il mondo ora pensasse che la storia di questa donna sia già compiuta. Che la sua lotta per i diritti e la libertà sia già terminata. E la dimenticasse.
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