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Il destino di tanti giovani calabresi è segnato dal contesto familiare e ambientale nel quale nascono e crescono. Poi si dirà, alla maniera di chi crede, che c’è il libero arbitrio e ognuno può scegliere tra il male e il bene, ma se uno vede attorno a sé solo esempi di vita violenti e vincenti, illegali e trionfanti, avrà non poche difficoltà a capire che il giusto sta da un’altra parte e poi di scegliere la propria collocazione. Questo per dire quanto sia ardua e complessa l’azione per sconfiggere la ‘ndrangheta e come non basti la sola azione repressiva – indispensabile e mai sufficiente – dello Stato, e quanto serva la mobilitazione delle coscienze per creare l’humus culturale nel quale si radichi e cresca la buona pianta della legalità.
Occorrono le due cose, devono andare insieme per creare le condizioni che consentano ad una persona di nascere e crescere in un contesto familiare e ambientale dominato dalla tolleranza e dal rispetto delle regole e di avere, quindi, la possibilità di decidere in piena autonomia e libertà il proprio posto nel mondo. La tragica vita e morte di Lea Garofalo non può essere archiviata come l’ennesimo fatto di cronaca. Il suo sorriso chiede ad ognuno di noi di non dimenticare e di fare qualcosa. L’hanno sciolta nell’acido dopo averla sequestrata, duramente interrogata, condannata a morte e uccisa. Aveva commesso la grave offesa di aver collaborato con la legge, volevano sapere da lei che cosa aveva detto agli uomini dello Stato che l’avevano sentita. La sua unica vera colpa è stata quella di essere cresciuta in un ambiente di sopraffazione e violenza, di illegalità e prepotenza. Poteva non ribellarsi e ogni cosa sarebbe rientrata nell’ordine naturale. Lei, invece, ha detto no e ha rivendicato con il suo comportamento il principio irrinunciabile della legalità e della giustizia.
E’ morta per mano di belve feroci, del suo corpo non c’è più nulla, ma lei, che è morta per tutti noi, deve vivere nel cuore di questa terra tormentata. E non è stata protetta dallo Stato che ora, come ha fatto il sottosegretario Mantovano, spiega con dovizia di particolari come e perché è accaduto. Anche sua figlia Denise corre rischi e meno male che a Crotone c’è un prefetto di prim’ordine, sensibile e vigile, che si è fatto carico della sua sicurezza in attesa che la burocrazia faccia il suo lento corso. Quella di Lea richiama le storie di Rosa e Maria Castiglione di Strongoli e di Francesca Franzè di Briatico, anche loro collaboratrici o testimoni di giustizia, vive fortunatamente. Le loro sono state scelte difficili, complicate dove anche una richiesta di rinuncia alla protezione va letta e interpretata con logiche non burocratiche se si tiene conto della vita che continua, delle relazioni che premono, del tempo che passa, delle lusinghe, della paura, dei lutti sanguinosi, della propria vita derubata di tutto. E’ inquietante che le loro vicende richiamino tanti aspetti dell’odissea di Lea. E questo deve spingere a pretendere che le loro vite, per quanto cambiate per sempre, siano protette da chi ha il compito di farlo. Ciò detto, è un altro l’aspetto su cui ci vogliamo soffermare.
L’altro giorno abbiamo pubblicato una bella intervista a Umberto Veronesi, che consigliamo di leggere a chi l’avesse perduta. Dall’alto della sua esperienza – quanti e, soprattutto, quante si sono messi in viaggio verso Milano per farsi curare da lui! – ha detto che le donne calabresi sono forti e intelligenti. Ha visto giusto anche questa volta anche se non ha dovuto diagnosticare una malattia perché di fatto ha indicato direttamente la terapia che ci piace tradurre così: la forza e l’intelligenza delle donne possono salvare la Calabria. Nella regione delle famiglie solidissime e del matriarcato dominante, checché ne dicano i maschi che non potranno mai smentire che la Locri della Magna Grecia fu dominata dalle donne, spetterà probabilmente a loro il compito più arduo e importante: educare alla legalità. Sono forti per farlo, e sono tanto intelligenti da capire che con la ‘ndrangheta i loro figli, i loro fratelli, i loro mariti, i loro padri, i loro cugini, i loro amici sono perduti. E se si muovono loro, le donne, nulla potrà fermare il cammino della speranza in un futuro governato dalla tolleranza, dal rispetto delle persone, dalla civiltà dei rapporti, dalla legge uguale per tutti e dalla giustizia da edificare come un monumento della libertà individuale e collettiva. Lo facciano nel nome di Lea, del suo martirio e soprattutto del suo sorriso che nessun acido potrà mai cancellare.
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