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di PIETRO MANCINI
«Sventurata la terra che ha bisogno di eroi!», scriveva, nella “Vita di Galileo”, Bertolt Brecht. Ma, in questo grigio autunno del più che giustificato scontento di tanti calabresi, per le condizioni sociali ed economiche della regione – che al vescovo di Reggio, e non solo a lui, ricorda una selva e non più un giardino – anche la breve esistenza e il coraggio, con cui ha affrontato la morte, Lea Garofalo, possono rappresentare un segnale di speranza, da sottolineare, in primis ai giovani, e da non archiviare in fretta. Certo, le forze dell’ordine sostengono che Lea uscì, volontariamente, dal programma di protezione, che era scattato dopo le sue dichiarazioni agli inquirenti, determinanti per l’arresto dei responsabili di un delitto di ‘ndrangheta, compiuto, a Milano, dai Cosco, tra cui il convivente della donna, picciotto di uno dei più pericolosi clan del Crotonese. Una vicenda tragica, che ha esportato nell’europea e cosmopolita Milano la ferocia e l’arroganza della Calabria più arretrata, quella del sangue e delle vendette tribali. Che ha suscitato, non solo a Milano e nella nostra regione, orrore per l’efferatezza di un crimine, ordinato da un aspirante boss, che non ha esitato a far torturare a sciogliere nell’acido la madre di sua figlia. E, infatti, il giudice milanese, che ha disposto l’arresto dei presunti responsabili dell’omicidio, stenta a credere alle sequenze agghiaccianti di una vicenda, “che ci riporta a situazioni e contesti, creduti ben lontani dalla realtà cittadina”. Un fatto di sangue, ‘ndrangheta e cemento, da non archiviare come uno dei tanti, frequenti delitti di ” lupara bianca “. Perché, stavolta, dai crudi particolari del fattaccio di cronaca nera emergono la volontà e la risolutezza di una donna coraggiosa che, da sola, aveva cercato di rompere, per sempre, con una vita nella quale era stata costretta a chinare la testa, davanti ai prepotenti congiunti e picciotti, con i quali aveva condiviso scelte, amori e la procreazione di una bambina. E Lea, considerata donna di ‘ndrangheta, in quanto sorella del capo di una delle cosche di Petilia, ha firmato la sua condanna a morte, prima aiutando gli inquirenti a far luce su un delitto, poi comunicando, in carcere, al furioso convivente, Carlo Cosco, la decisione di lasciarlo. Pur tra mille difficoltà, in un contesto familiare, da sempre, malavitoso – in cui la donna deve, da sempre, sottostare all’egemonia e agli ordini prima del padre e dei fratelli, poi a quelli del compagno – Lea ha cercato di sottrarsi al suo cupo destino. Ed era riuscita, addirittura, a sventare, con la forza, il tentativo di un affiliato alla cosca crotonese, che intendeva ucciderla, su ordine di Cosco, qualche mese prima dell’agguato a Milano, dove l’ex compagno l’aveva attirata, con il pretesto di decidere sull’iscrizione della figlia all’università. Qualcuno, non a torto, ha definito le torture e l’orribile fine di Lea Garofalo una “sconfitta dello Stato”, che ha assistito, impotente e distratto, alla scomparsa di una donna impavida, torturata, uccisa e poi sciolta nell’acido, perché aveva osato svelare i tetri segreti dell’ambiente in cui era cresciuta. Sarebbe importante se le istituzioni, regionali e centrali, non contribuissero all’oblio sul calvario di Lea. Senza retorica, ma onorandone la memoria e sottolineando la sua scelta civile, da cittadina consapevole, di denunciare le malefatte delle cosche. E sostenessero, negli studi, la figlia della Garofalo, Denise, 18 anni, rimasta orfana di madre e con il padre assassino in prigione. Cercando di offrire una prospettiva diversa alla ragazza, per la quale aveva lottato la giovane calabrese, uscendo schiacciata, prima che dai suoi spietati carnefici, da una mentalità arcaica e mafiosa, che può essere sconfitta, non lasciando sole, sotto l’opprimente peso della burocrazia e degli opprimenti ingranaggi, familiari e criminali, le tante madri, volonterose e intrepide come la sfortunata Lea.
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