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C’era il tempo dei carteggi d’amore, delle lettere spedite come dardi tirati da Cupido. Missive scritte con parole ardite e ardenti, cucite da un sottilissimo filo rosso: il pudore. C’era il tempo dell’amore sigillato con la ceralacca…

Oggi non più.

Nel tempo dei social l’amore ha perso il pudore. Ha chiuso in un cassetto il rossore delle guance che tradisce il sentimento provato e quel bagliore di occhi innamorati che s’accende in uno scambio di sguardi. Ci si incontra o ci si lascia anche per chat, con un cinguettio su Twitter, con un post su Facebook o su Instagram.

In una sorta di frullatore dei cuori, anche i palpiti sono visibili, condivisibili e commentabili.

Ma c’era un tempo in cui l’amore era scritto, chiuso, affrancato e spedito. Era il tempo degli epistolari. Su quei fogli le passioni nascevano, crescevano, si nutrivano, palpitavano e a volte finivano. Nel gioco dell’amore sigillato con la ceralacca, la busta chiusa e l’unico destinatario facevano la differenza. L’attesa dell’arrivo della lettera e la frenesia di ricevere la risposta erano i punti cardinali di corrispondenze celate. Erano attese “senza un istante di tregua” a dirla con Gabriel Garcia Marquez: “[…] Il lunedì, tuttavia, arrivando nella sua casa di calle de las Ventanas, trovò una lettera che galleggiava nell’acqua ristagnata dell’atrio e riconobbe subito sulla busta bagnata la calligrafia imperiosa […] e credette persino di cogliere il profumo notturno delle gardenia appassite, perché il cuore gli aveva ormai detto tutto fin dal primo spavento: era la lettera che aveva aspettato, senza un istante di tregua, per oltre mezzo secolo”. (da “L’amore ai tempi del colera”, Mondadori 2016, traduzione di Angelo Morino).

Una lettera è per sempre, si potrebbe dire e allora ecco gli stralci di alcune missive d’autore.

Il gioco comincia non da uno scrittore ma da un compositore, Ludwig van Beethoven e dalla sua lettera all’“Amata Immortale” . In realtà si tratta di un gruppo di tre lettere redatte il 6 e il 7 luglio 1812 mentre Beethoven seguiva una cura alle Terme di Teplitz in Boemia. Destinatario? Una donna di cui ancora oggi non si conosce l’identità.

“Buon giorno. Pur ancora a letto, i miei pensieri volano a te, mia Immortale Amata, ora lieti, ora tristi, aspettando di sapere se il destino esaudirà i nostri voti – posso vivere soltanto e unicamente con te, oppure non vivere più […] oh Dio, perché si dev’essere lontani da chi si ama tanto. E la mia vita a Vienna è ora così infelice – Il tuo amore mi rende il più felice e insieme il più infelice degli uomini – alla mia età ho bisogno di una vita tranquilla e regolare -ma può forse esser così nelle nostre condizioni? Angelo mio, mi hanno appena detto che la posta parte tutti i giorni – debbo quindi terminare in fretta cosicché tu possa ricevere subito la lettera […] ”.

Lettere che volteggiano nel tempo senza spazio e senza un ordine preciso così come l’amore. E allora basta una folata di vento e te le ritrovi tra le mani, come quelle di Franz Kafka a Milena Jesenkà. Fittissima la corrispondenza fra l’autore de “La metamorfosi” e la giornalista e scrittrice ceca che per lui fu anche traduttrice. “Un fuoco vivo come non ne ho mai visti” scrive Franz a Milena, conosciuta a Praga. A lei, Kafka comincia a scrivere nell’aprile del 1920, sul balcone della pensione Ottoburg di Merano. Le missive sono anche al centro di un libro, “Lettere a Milena”, appunto (Mondadori, 2017, traduttori Ervino Pocar ed Enrico Ganni). Lettere da far girar la testa: “Ancora sabato. Questo incrociarsi di lettere deve cessare, Milena, ci fanno impazzire, non si ricorda che cosa si è scritto, a che cosa si riceve risposta e, comunque sia, si trema sempre. Capisco benissimo il tuo ceco, odo anche la risata, ma m’ingolfo nelle tue lettere tra la parola e il riso, poi odo soltanto la parola, poiché oltre a tutto la mia natura è angoscia. […] ” .

Franz e Milena, ma anche Giacomo Leopardie Fanny Targioni Tozzetti.

Roma, 5 dicembre 1831: Giacomo scrive: “Cara Fanny. Non vi ho scritto fin qui per non darvi noia, sapendo quanto siete occupata. Ma in fine io non vorrei che il silenzio paresse dimenticanza, benché forse sappiate che il dimenticar voi non è facile. Mi pare che mi diceste un giorno, che spesso ai vostri amici migliori non rispondevate, agli altri sì, perché di quelli eravate sicura che non si offenderebbero, come gli altri, del vostro silenzio. Fatemi tanto onore di trattarmi come uno de’ vostri migliori amici; e se siete molto occupata, e se lo scrivere vi affatica, non mi rispondete. Io desidero grandemente le vostre nuove, ma sarò contento di averne da Ranieri o dal Gozzani, ai quali ne domando. Delle nuove da me non credo che vi aspettiate. […]”.

Ancora una folata di vento ed ecco John Keats a Fanny Brawne.

“Mia cara ragazza, in questo momento mi sono messo a copiare dei bei versi. Non riesco a proseguire con una certa soddisfazione. Ti devo dunque scrivere una riga o due per vedere se questo mi assiste nell’allontanarti dalla mia mente anche per un breve momento […] potevo resistere fino a quando ti vidi; e perfino dopo averti visto ho tentato spesso “di ragionare contro le ragioni del mio amore”. Non posso farlo più – il dolore sarebbe troppo grande […] Il tuo biglietto è arrivato proprio qui. Non posso essere felice lontano da te. È più ricco di una nave di perle. Non mi trattare male neanche per scherzo. […]”.

Irresistibile Jack London nella sua lettera a Anna Strunsky. È il 3 aprile del 1901: “Cara Anna, ho forse detto che gli essere umani possono essere archiviati in categorie? Allora, se l’ho detto, lasciami fare una precisazione: non tutti gli essere umani. Tu mi sfuggi. Non riesco a classificarti, non riesco ad afferrarti. Posso indovinare, nove volte su dieci, a seconda delle circostanze, posso prevedere le reazioni, quelle nove volte su dieci, dalle parole o dai gesti, posso riconoscere le pulsazioni dei cuori. Ma al decimo tentativo rinuncio. Non ci arrivo. Tu sei quel decimo tentativo”.

Jack e Anna ma anche Vladimir Nabokov a Véra Slonim. L’autore di Lolita scrive alla moglie: “[…] Sì, ho bisogno di te, del mio racconto di fate. Perché tu sei l’unica persona a cui posso parlare del grido di una nuvola, del canto di un pensiero e del fatto che quando oggi sono andato a lavorare e ho visto ogni girasole in faccia, mi hanno sorriso anche loro con i loro semi”.

Carteggi d’amore scritti, come direbbe Fernando Pessoa, con parole sdrucciole che come tutti i sentimenti sdruccioli, sono naturalmente ridicole.

Eppure: “[…] Magari fosse ancora il tempo in cui scrivevo/ senza accorgermene/ lettere d’amore/ ridicole./ La verità è che oggi/ sono i miei ricordi di quelle lettere/ a essere ridicoli/”, (da Tutte le lettere d’amore sono ridicole di Fernando Pessoa).


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