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di SILVIO GAMBINO
Cattive notizie per la ‘ndrangheta. Con 252 voti favorevoli, il 6 ottobre scorso il Senato ha approvato un testo di legge che aveva iniziato il suo iter (politico prima e parlamentare in seguito) 17 anni addietro, ad opera del Centro Studi “Lazzati”. La determinazione tutta calabrese del suo fondatore, il giudice di cassazione Romano De Grazia, alla fine l’ha spuntata rispetto a tutte le incertezze e agli apparenti consensi che giammai, tuttavia, si dimostravano concludenti nel produrre l’approvazione parlamentare del progetto di legge. Le forze politiche hanno infine ritrovato l’unanimità nell’approvare il testo (con un solo astenuto). Si potrebbe perfino pensare che il nuovo clima bipartisan che ha portato a una simile unanimità sia stato anticipato dalla magnifica manifestazione di piazza svolta a Reggio Calabria, il 25 settembre. Tempi duri, dunque, per la ’ndrangheta? Forse bisogna essere più cauti, bandendo ogni trionfalismo. Intanto qualche parola per illustrare i contenuti della legge (in corso di pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale) e, a seguire, qualche riflessione sul da farsi. Non dimenticando sul punto le preoccupazioni e i ripetuti allarmi del giudice Gratteri, quando ci ricorda nel corso dei suoi numerosi interventi nelle scuole della Regione come gli operatori di giustizia e la stessa polizia giudiziaria corrano il vero rischio di essere chiamati a svuotare il mare con un mestolo. Fuori da metafora, la legislazione penale e processuale risulta del tutto inadeguata a combattere un fenomeno criminale che opera con la competenza dei colletti bianchi nei consigli di amministrazione e con la violenza dell’esercito criminale mafioso. I rischi da mettere in conto per un giovane che è combattuto se farsi cooptare o meno dalle varie associazioni mafiose operanti sul territorio sono individuabili in sette anni di carcerazione, dopo i quali, con la vigente legislazione penale, il condannato ritornerebbe con gli onori e i gradi del carcere patito a godersi una leadership nei territori, che nessun a quel punto sarebbe in grado di disconoscere. In altri termini, dunque, vogliamo dire che il trionfalismo del ministro degli Interni, a seguito di qualche operazione di polizia ben riuscita, risulta del tutto mal posto quando si considerino con una qualche serietà i gradi e i livelli di penetrazione della criminalità mafiosa negli appalti, negli enti territoriali, nella politica. Oggi dobbiamo parlare soprattutto di quest’ultima e del condizionamento che sulle elezioni (di ogni livello istituzionale, ma soprattutto di quelli territoriali) riescono a esercitare le organizzazioni e gli interessi mafiosi. Rispetto a una legge di circa quaranta anni addietro (legge n. 575/1965, contenente disposizioni contro la mafia), la odierna legge (di due soli articoli) si caratterizza per risolvere una obiettiva lacuna e una non banale incoerenza della vigente legislazione penale, come ha già bene sottolineato Vittorio Grevi, autorevole processual-penalista pavese. La legge del 1965 aveva già disciplinato in modo adeguato il diniego di ottenere licenze, autorizzazioni di polizia e di commercio, concessione di costruire o gestione di opere riguardanti la pubblica amministrazione e i servizi pubblici da parte di “persone alle quali sia stata applicata con provvedimento definitivo una misura di prevenzione”. Gli stessi divieti e le relative decadenze stabilite dalla legge per tali sorvegliati speciali operavano nei confronti di eventuali loro conviventi. L’insieme di tali previsioni inoltre riguardavano persone condannate con sentenze definitive o, qualora non definitive, (almeno) confermate in grado di appello per delitti sanzionati dall’art. 51.3-bis del codice di procedura penale (reati mafiosi). La lacuna dell’ordinamento penale, ora superata dalla “legge Lazzati”, risiede appunto nella considerazione secondo la quale le persone che, in ragione della loro pericolosità sociale, venivano riguardate da misure speciali di prevenzione e per tale ragione venivano private con disposizione di legge del diritto politico per eccellenza di votare e di essere votati, non conoscevano alcuna limitazione quanto alla propaganda elettorale, potendo in tal modo esibire coram popolo, con la mera loro vicinanza, una indicazione inequivoca di voto. Una simile libertà di svolgere attività di propaganda elettorale in favore o in pregiudizio di candidati partecipanti a qualsiasi tipo di competizione elettorale oggi non è più riconosciuta ai mafiosi. Comportamenti contrari a tali previsioni di legge verrebbero puniti con la reclusione da uno a cinque anni. Le sanzioni penali si estendono allo stesso candidato che accetta la campagna elettorale che viene fatta dalla persona soggetta a misure di sorveglianza speciale di pubblica sicurezza. La legge si accompagna con una seconda disposizione che meriterebbe un approfondimento più adeguato, anche in ragione degli istituti ivi richiamati. Per il momento dobbiamo limitarci a ricordare come la condanna alla pena di reclusione per i reati di cui abbiamo appena parlato comporta la interdizione dai pubblici uffici per la durata della pena detentiva, cui consegue l’ineleggibilità del condannato per la stessa durata della pena detentiva. Qualora il condannato sia un membro del Parlamento, lo stesso adotterà le determinazioni conseguenti nel rispetto dei propri regolamenti. Tempi più duri dunque per i mafiosi e per i loro ‘compari’ in politica! Dopo l’apprezzamento per l’idea e per il sostegno offerto in questo senso dal centro Lazzati e dal suo caparbio fondatore, dobbiamo ora pensare a una legislazione penale adeguata alla odiosità, alla gravità e alla diffusione del fenomeno mafioso (in Calabria e nelle regioni meridionali soprattutto). Il silenzio in materia da parte del legislatore statale sarebbe inaccettabile da parte della società calabrese e meridionale.

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