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«Vorrei capire che cosa significa l’autocolpevolezza da parte di questo collaboratore. Una cosa é certa: io so altri nomi, e sono stato già sentito dai magistrati di Salerno».
Adesso Don Marcello teme per la sua vita. Dopo un discorso sofferto, a tratti affaticato, quasi interrotto dal singhiozzo nei passaggi più difficili ha abbandonato le reticenze e il testo preparato, e ha cercato con lo sguardo le persone che gli sono state più vicine in tutti questi anni: «Perchè non dovrei dire che temo?»
Ha mostrato la prima pagina del Quotidiano di ieri, ha riletto ad alta voce il titolo sul “killer di Gianfredi”. Non è quello che racconta un testimone che a gennaio lui stesso ha accompagnato dagli investigatori. «Avrebbe visto, ma possiamo anche evitare il condizionale» quello che è successo veramente il 29 aprile del 1997 a Parco Aurora. Don Marcello Cozzi ne è convinto, e lo scenario sarebbe molto diverso da quello raccontato di recente dal nuovo dichiarante della Dda, il melfitano Alessandro D’Amato.
La notizia della possibile svolta nel caso dell’omicidio dei due coniugi Gianfredi con la confessione di uno dei sicari del clan dei basilischi, è arrivata nella biblioteca del Cestrim, che è anche la sede di Libera Basilicata, poco prima dell’inizio della conferenza stampa prevista per chiarire alcuni punti a proposito delle polemiche seguite alle parole pronunciate durante la manifestazione di domenica scorsa, per commemorare l’omicidio di Elisa Claps.
Don Cozzi è tornato sull’azione giudiziaria che Michele Cannizzaro ha annunciato nei suoi confronti. Prima però ha attaccato duramente il Quotidiano di «mistificare la realtà» per aver raccontato di una rissa sfiorata tra esponenti dell’Azione Cattolica e di Libera in coda alla manifestazione di domenica scorsa, quando si sarebbe trattato di «una normale e animata discussione», e di «un’ipotetica faida tutta interna alla chiesa» sul caso delle due versioni del documento di solidarietà al vescovo Superbo diffuso dal Consiglio presbiterale martedì. Ha distribuito le copie di un’email spedita per sbaglio dal direttore del Quotidiano all’indirizzo dell’ufficio stampa di Libera, in cui l’annuncio della conferenza di ieri mattina veniva preceduto dalla nota «per conoscenza dell’attività dei tuoi dèmoni» (a proposito si veda il riquadro a destra. ndr).
«A questo punto – ha aggiunto Don Cozzi – ci chiediamo se quell’opera di mistificazione non rientri in un piano ben più grande che ha un altro obiettivo. È questa l’obiettività che dovremmo attenderci dall’informazione? Se un direttore di giornale ci considera dèmoni come possiamo pensare che commenti con obiettività le nostre iniziative? E non voglio neanche soffermarmi a chiedere chi possa essere quel qualcuno che deve essere tempestivamente avvisato delle nostre attività» (anche per questo si veda il riquadro a destra. ndr).
Sul tema riproposto dai gradini della Trinità dei contatti telefonici che sarebbero intercorsi tra Michele Cannizzaro e alcuni esponenti della ‘ndrangheta, Don Cozzi ha letto paro paro il testo di quel discorso, elencando a uno a uno i personaggi indicati nell’informativa del maresciallo Aurelio Petrosino (si veda Quotidiano del 15 settembre). Rispetto alla bozza diffusa a margine della conferenza agli organi di stampa ha omesso solo di menzionare «un contatto» – riportato – con Leonardo Numida Stolfi, uno degli indagati per l’omicidio dei coniugi Gianfredi, risultato positivo alla prova del guanto di paraffina la sera del 29 aprile 1997.
Poi ha annunciato l’inizio di una raccolta di firme per chiedere al Csm di valutare l’opportunità che Felicia Genovese, moglie di Cannizzaro, resti in magistratura, e la liceità del suo operato di inquirente nella vicenda della scomparsa e l’omicidio di Elisa Claps.
Qui è cominciata la parte più sofferta del monologo del sacerdote, che si è soffermato sul dolore della famiglia di Elisa, presente il fratello Gildo, che «scandalizza i benpensanti da qualunque parte essi stiano, perché magari impreca contro il cielo e bestemmia contro il Padreterno». Lo ha paragonato allo «scandalo» della croce davanti al quale «non tiene nessuna teologia e ti viene chiesto solo di stare in silenzio e di abbandonarti».
«Non invidio – ha detto Don Marcello Cozzi – chiunque abbia la verità in tasca su come si gestisce il dolore e su come lo si accompagna, anche se questo è quello della famiglia Claps. Io non ce l’ho».
Ha ammesso che nella chiesa c’è chi non la pensa così, e ha dedicato un pensiero commosso al vescovo Agostino Superbo, al suo dolore profondo perchè non viene creduto, e al suo proprio mentre Gildo gli chiedeva di farsi da parte sempre dai gradini della Trinità. «Io mi fido di lui; io sto dalla sua parte», ha dichiarato Don Cozzi, che ha fatto riferimento a chi da «duemila anni» cerca di «seminare zizzania» nella chiesa.
«A qualcuno – così ha proseguito – non pare vero far pagare al mio vescovo il fatto che in questi anni mi abbia sempre fatto fare tutto ciò nonostante più volte sia stato sollecitato a farmi fuori. Ma chi semina zizzania si tranquillizzi: io e il vescovo siamo una cosa sola; lavoro su suo mandato».
Poi ha risposto a chi gli ha detto che avrebbe dovuto prendere immediatamente le distanze da Gildo: «Non si prende le distanze dalla croce, si prende le distanze dai benpensanti e da chi ha sempre la verità in tasca. Se il vescovo fosse stato lì domenica avrebbe fatto come me, e la dimostrazione è data dal fatto che non ha mai risposto stizzito ai Claps, come invece pure non pochi preti hanno fatto, ma sempre con il silenzio e la preghiera, perché pure per lui il dolore è una terra sacra da rispettare in silenzio».
«Dunque, tranquilli tutti». Così ha concluso. «Io continuo a chiedere verità senza fare sconti a nessuno, senza farmi intimidire da nessuno; a chiederla per Elisa, ma anche per Luca e Marirosa, per Tiziano, per De Mare, per Gianfredi. E mando a dire ai responsabili di questi omicidi e dei loro depistaggi che c’è un solo modo per chiudermi la bocca: eliminarmi fisicamente, lo hanno fatto in queste occasioni non avrebbero problemi a farlo con un prete. Ma anche in quel caso purtroppo devo dirgli che per uno che eliminano c’è invece ormai una Basilicata intera che invece ormai ha deciso di andare avanti. In questa regione c’è un forte vento di speranza che nessuno potrà ormai fermare. Si devono rassegnare tutti. Potenza mi ricorda la provincia trapanese degli anni novanta in cui fu ucciso Livatino».
Leo Amato
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