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di SARA LORUSSO
POTENZA – «E’ da qui che è cominciato tutto, è da qui che è iniziata la consapevolezza che questa città è anche altro». C’erano alcune centinaia di persone davanti al portone della chiesa della Trinità, ieri mattina. A quelle che avevano percorso la strada fatta da Elisa prima di essere uccisa, se ne erano aggiunte altre. Si chiude davanti alla chiesa sequestra dalla magistratura di Salerno, che sta conducendo le indagini sull’omicidio della ragazza potentina, la manifestazione con cui ancora una volta la famiglia Claps e l’associazione Libera hanno voluto ricordare e chiedere «verità e giustizia». Non è scomparsa Elisa. E’ stata uccisa. Ed è accaduto esattamente il 12 settembre del 1993, ne sono convinti anche gli investigatori. Quattro tappe “simboliche” hanno riempito la mattinata di ieri, dalla casa di Elisa fino alla chiesa, passando sotto quella targa di via IV Novembre dove a lungo si pensò fosse stata vista prima di scomparire nel nulla. I fiori dei bambini, gli striscioni, le parole e i gesti chiave.
Ci sono i fratelli di Elisa, Gildo e Luciano, c’è la madre, Filomena, che ieri «no, non ce la fa a parlare». Lo aveva fatto a tre giorni dal ritrovamento del corpo di Elisa nel sottotetto della Trinità, il 17 marzo scorso, davanti a circa 10 mila persone. Ieri, una domenica di settembre come allora, c’è da rivendicare la verità. Completa, «e non solo per noi – dice Gildo prima di salutare, tra mille abbracci, quanti lo hanno accompagnato – Ma è per tutta la città, che non merita tutto questo, fatta, per la maggioranza, di gente buona».
«Se quel 12 settembre Elisa pagava con la vita la difesa della propria verginità – dice don Marcello Cozzi, referente di Libera Basilicata – la “macchina” che si è messa in moto subito dopo, ha tolto la verginità a Potenza». Quella di Elisa è una storia «costellata di depistaggi e omertà, la pagina più buia della storia recente» di questo capoluogo. «C’è chi ha sperato che quel giorno diventasse nel tempo un simbolo, e poi basta». E invece no, «perché ogni anno glielo abbiamo ricordato», nel mezzo di una città magari un po’ troppo «distratta» e per questo «loro si sono sentiti sempre più intoccabili». Quella “macchina” è la stessa, ne sono sicuri, che poi ha reso possibile il ritrovamento del corpo di Elisa lo scorso 17 marzo, nel corso di alcuni lavori nel sottotetto della chiesa del centro storico. E’ al vescovo che si rivolgono: che spieghi cosa è successo. «Oggi sappiamo – dice Gildo – che della presenza del corpo di Elisa in quella chiesa si sapeva da tempo». Nei giorni immediatamente successivi al ritrovamento “casuale” si è poi saputo che, probabilmente, il corpo era stato notato da alcune donne delle pulizie e da uno dei sacerdoti della parrocchia, don Vagno che, a sua volta, aveva spiegato di aver cercato di avvisare il vescovo. Ma monsignor Superbo ha sempre affermato, anche con note ufficiali, di essere venuto a conoscenza del ritrovamento solo quella mattina del 17 marzo. «Ma questo vuol dire solo due cose – ha ribadito Gildo – O sapeva, o, se è all’oscuro di tutto, non può fare il vescovo perché ci sono preti della sua Diocesi che mentono e lui non lo sa».
Adesso che le indagini vanno avanti «abbiamo messo a posto alcuni tasselli. Già nel 1996 in quel sottotetto furono fatti lavori e sappiamo che alcuni cassettoni da incernierare erano accanto al corpo di Elisa. Come è possibile che nessuno degli operai se ne sia accorto? E ancora nel 2008, quando del materiale posto nei pressi del corpo è stato spostato. E’ ridicolo pensare che nessuno abbia mai visto nulla». Anche don Marcello non elude l’argomento. «C’è una chiesa che al suo interno non vuole alcuna zona d’ombra, senza difesa d’ufficio o esemplificazioni». Poco prima aveva anche parlato di don Mimì Sabia, il parroco a lungo custode della Trinità: «Come prete mi rifiuto di credere che celebrasse messa sapendo che nella sua chiesa era accaduto un omicidio. Staremmo parlando di altro, di un mostro». Eccola la differenza tra «la chiesa degli uomini e non quella di Dio» a cui si rivolge anche Gildo: «Il vescovo deve dare conto a me e a tutta la comunità cattolica».
E poi c’è il resto delle domande, quelle che hanno costellato, anno dopo anno, la riflessione sulle indagini. Ha fiducia Gildo negli investigatori di oggi, «sensibili e attenti» e in quel «gruppo di prove che inchioderanno l’assassino». Non hanno dubbi sia Danilo Restivo (ad oggi anche unico indagato), ma è a chi «lo ha coperto» che guardano. «Noi non siamo come loro e loro non sono tutta la città, che – prosegue don Cozzi – non accetta di essere identificata con un manipolo di uomini in giacca e cravatta. Non basta chiedere a Danilo che cosa è succeso e chi c’era con lui. Ma sarebbe il caso di chiederlo anche ai genitori».
Alcuni applausi rompono ogni tanto il filo. Che si riannoda sul passato. Don Marcello chiederà l’intervento del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, in qualità di garante del Csm, per verificare l’operato di Felicia Genovese, il magistrato che si occupò delle prime indagini sul caso. «Moglie di un uomo (Michele Cannizzaro, ndr) che ha avuto contatti telefonici con ndranghetisti. Per carità, non è reato, ma forse in un Paese che vive del sospetto, l’inopportunità della circostanza si poteva eliminare».
Sono tutti lì, stretti da un pezzo di quella città «che non è omertosa, che rispetta i tempi della giustizia e che aspetta». E se da domani si tornerà a parlare di «complotti o killeraggio mediatico, saremo tranquilli». Perchè se nel passato, come quella volta sul manifesto, dicevano “io so”, «oggi, ne abbiamo le prove».

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