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Il Report 2019 sugli “Immobili in Italia” appena pubblicato dal Mef e dall’Agenzia delle Entrate consente un’analisi sulla situazione socio-economica delle varie aree geografiche e su temi al centro del dibattito politico-istituzionale, come l’attribuzione di maggiore autonomia fiscale alle amministrazioni locali (per le quali il prelievo immobiliare rappresenta uno dei principali strumenti di finanziamento).
Se, quindi, la finalità della ricerca è stata quella di aggiornare, come ogni anno, il “settore casa” partendo da dati reddituali e fiscali, la lettura a ritroso dei risultati può avere un valore di indicatore economico e sociale relativamente solido.
Così, dalle principali novità fiscali del settore e da altri dati come quelli del catasto edilizio urbano, dell’Osservatorio del mercato immobiliare, delle dichiarazioni dei redditi, dei versamenti delle imposte sugli immobili e dei dati del registro, lo studio è in grado di fornire, grazie alla disaggregazione geografica e a partire dal patrimonio immobiliare censito nel 2016, un aggiornamento concreto sulla ricchezza, sul reddito, sul valore e sugli utilizzi del patrimonio immobiliare nelle varie parti del nostro Paese. Le differenze territoriali emergono subito.
CASA E RICCHEZZA
Poco meno del 50 per cento del patrimonio abitativo italiano – stimato nel 2016 in 57 milioni di immobili di proprietà di contribuenti per 6.004,4 miliardi, con 5.526 miliardi di euro riguardanti abitazioni possedute da persone fisiche – si trova al Nord, con 1.006,2 miliardi concentrati nella sola Lombardia, mentre la restante metà del valore residenziale è divisa tra Centro, Sud e Isole.
Se in tutte le macro-aree geografiche del Paese i proprietari di abitazioni sono per la maggior parte lavoratori dipendenti e pensionati, il 51% di questi risiede al Nord, il 23% al Centro e il 26% al Sud e nelle Isole.
IL VALORE
Non solo. Considerando che nel 2016 un’abitazione in Italia vale mediamente 162mila euro, per 1.385 euro/mq, la Lombardia è l’unica Regione dove il valore delle case è rimasto stabile (in Trentino c’è stato un aumento dello 0,8), a fronte di una diminuzione generale dell’1,8% rispetto al 2015.
Se, infatti, i valori di mercato più alto per quanto riguarda le abitazioni principali sono in Trentino Alto Adige (339 mila euro) e Valle d’Aosta (oltre 283 mila euro), i valori mediamente più bassi si registrano in Basilicata (106 mila euro) e Molise (112 mila euro). Identica situazione per le abitazioni non principali.
Il confronto con i dati raggruppati per città va nella stessa direzione: se a Milano le abitazioni valgono complessivamente 207,4 miliardi di euro, a Napoli si scende a 104,5 miliardi di euro. Di tutta evidenza, dunque, l’individuazione, secondo quanto indica il Rapporto, «di una relazione positiva tra valore del patrimonio abitativo e Pil regionale, essendo il primo uno degli indicatori principali della ricchezza a livello locale».
EMIGRAZIONE E SPOPOLAMENTO
Dalla lettura incrociata dei dati emerge altro: le unità di proprietà delle persone fisiche presenti negli archivi catastali, ma non riscontrate nelle dichiarazioni dei redditi, tendono ad aumentare ovunque, ma riguardano il 2% del totale al Nord, il 3,2% al Centro, il 6,6% al Sud.
Stessa distribuzione geografica per quanto riguarda le persone non fisiche (che non hanno obblighi dichiarativi): il 21,7% per il Nord, il 28,9% per il Centro e 33,5% per il Sud. Ebbene, come spiega il Rapporto, per tale dato esistono diverse, possibili cause: errori o incoerenze negli archivi (ad es. immobili fatiscenti), anche fenomeni di evasione, certo; ma soprattutto il fatto che gli immobili sono di proprietà di cittadini italiani residenti all’estero.
«In particolare quest’ultimo fattore – si legge – spiegherebbe perché nelle regioni meridionali risulti più elevata l’incidenza degli immobili non riscontrati nelle dichiarazioni dei redditi, dal momento che in quest’area territoriale il fenomeno dell’emigrazione è stato storicamente più significativo».
Di emigrazione e spopolamento si torna a parlare riguardo il rapporto tra stock immobiliare e variabili demografiche. Innanzitutto, la quota di abitazioni principali sul totale delle abitazioni delle persone fisiche: il dato si conferma più basso al Sud con il 53,5%, con Nord e Centro che si attestano rispettivamente al 56,8% e al 58,5%.
Se, poi, il 60% dei 57 milioni di immobili italiani è destinato ad abitazione principale e pertinenze (cantine, soffitte, box o posti auto), per un 75% di famiglie che risiede in una casa di proprietà (ipotizzando che ad ogni abitazione principale corrisponda una famiglia), la percentuale nel Meridione sale al 78,7%. E anche la quota di abitazioni non destinata alla residenza di famiglie evidenzia delle differenze territoriali: al Sud la percentuale è pari al 32%, al Nord si attesta intorno al 23%.
«La spiegazione più probabile – si legge nel Rapporto – è legata al fatto che nel Mezzogiorno si concentrano sia territori a vocazione turistica e quindi caratterizzati da una maggiore presenza “di seconde case”, sia territori, soprattutto nelle zone interne (quelle cioè lontane dai servizi di prima necessità come scuola, sanità e mobilità, di cui il Mezzogiorno detiene il primato, n.d.r.), colpiti da fenomeni di migrazione o vero e proprio spopolamento».
IMPRESA E REDDITO
Forbice molto ampia tra Nord e Sud anche riguardo il numero dei contribuenti e il numero dei proprietari di immobili diversi dalle persone fisiche. In altre parole, le imprese. Se il 54% dei contribuenti è localizzato nell’Italia settentrionale, il 22% al Centro e il restante 24% al Sud ed Isole, il divario già pesante aumenta riguardo i contribuenti proprietari di immobili: il 61% si trova nel Nord Italia, il 23% al Centro e il 16% al Sud ed Isole.
Una spia importante riguardo il tessuto produttivo, visto che le società di capitali posseggono il maggior numero di immobili (quasi 1,2 milioni) e relative pertinenze (quasi 1,4 milioni) e che gli immobili ad uso produttivo sono circa 744 mila, di cui il 18,7% detenuto dalla società di persone, il 77,9% dalle società di capitali e il 3,4% dagli enti non commerciali.
ALIQUOTE E FEDERALISMO FISCALE
La tassazione sul patrimonio immobiliare è uno degli strumenti di prelievo per il finanziamento delle amministrazioni locali più diffuso nei Paesi europei, ma anche quello più discusso.
A questa scelta si affianca quella più generale del decentramento delle competenze, che nell’ottica di ridefinire i rapporti finanziari tra centro e periferia, avrebbe dovuto assicurare maggiore efficienza ed equità nell’offerta dei servizi pubblici. Anche in tema di casa, invece, e di scelte da parte degli enti sull’aumento delle entrate da imposizione immobiliare, assistiamo a una grande sperequazione territoriale. Si parte dai pesanti tagli subìti – in particolare dal 2011 – che hanno spinto i Comuni ad aumentare le aliquote Imu e Tasi, nell’ambito dei rispettivi limiti di manovrabilità, per finanziare spese correnti e non investimenti in conto capitale.
LA LEGGE DI BILANCIO
Con la legge di bilancio 2019, sottolinea il direttore generale delle Finanze, Fabrizia Lapecorella, «è stato rimosso il blocco delle aliquote dei tributi locali che gravano principalmente sugli immobili, restituendo margini di manovra alle amministrazioni per migliorare i servizi ai cittadini e investire in opere pubbliche». Il Rapporto, però, dice chiaramente che, aggregando i Comuni su base regionale, risulta che, in generale, quelli del Nord presentano spazi di manovrabilità ancora disponibili relativamente più alti rispetto a quelli del Centro e del Sud. E ancora: «Una rilevante diversità si riscontra tra i Comuni delle regioni a statuto ordinario e quelli delle regioni a statuto speciale. I Comuni della Val d’Aosta e del Friuli mostrano, infatti, il maggior sforzo fiscale residuo (rispettivamente 33% e 30%) rispetto al complesso delle regioni italiane. Tra le regioni a statuto ordinario, i Comuni del Veneto presentano uno sforzo fiscale residuo più alto (12,5% del gettito potenziale massimo)». Insomma, non solo case.
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