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di MARIATERESA LABANCA Davanti all’ingresso B della Sata quella voce che rimbomba dallo schermo acceso per la diretta con Sky news 24 sembra ancora più autorevole. Sergio Marchionne, con il piglio del vero leader, anche se – ci tiene a precisare – «sono uomo d’impresa» e neanche lontanamente «un politico» parla alla platea del meeting di Comunione e liberazione, ma sembra rivolgersi a tutti gli italiani. Poi, avanti, arrivando dritto al cuore della vertenza Melfi, il suo intervento si fa sempre più duro. Giovanni Barozzino e Marco Pignatelli, due degli operai della Sata accusati da Fiat di aver bloccato un carrello robotizzato nel corso di uno sciopero, ascoltano in silenzio. La telecamera puntata su di loro li riprende. Indossano ancora la maglia azzurra della Sata, i loro volti sono tesi. «Sabotaggio», «regole violate», «inaccettabile difesa»: quelle parole scendono come macigni. Tanto che, complice un caldo insopportabile, a un certo punto i due lavoratori chiedono di interrompere la diretta. Non serve altro, il pensiero del top manager Fiat è stato chiaro, fin troppo: In Fabbrica Italia, l’ambizioso progetto che passa da un mega investimento di 20 miliardi di euro, «non c’è posto per chi non rispetta le regole del vivere civile all’interno di una fabbrica». E per Marchionne Giovanni Barozzino, Antonio Lamorte e Marco Pignatelli quelle regole non le hanno rispettate. Al contrario, l’amministratore delegato del gruppo torinese, torna a ribadire la legittimità della condotta Fiat, nonostante «l’impopolarità» della scelta: «Abbiamo pieno rispetto delle leggi italiane e abbiamo dato piena attuazione al decreto del giudice del lavoro di Melfi». Fino all’udienza del giudizio di opposizione «non faremo altro che seguire la prassi, come è accaduto e accade in altre aziende». Ma nel frattempo «quel rapporto di fiducia che deve regolare ogni rapporto si è spezzato». In nessun modo – secondo Marchionne – «è possibile tollerare illeciti che in qualche caso sono addirittura tentativi di sabotaggio». Questo «non è giusto» nei confronti dell’azienda ma soprattutto «è scorretto» nei confronti dei colleghi. E ancora, dignità e diritti, «due parole che in questi giorni ho sentito spesso – affonda – non sono patrimonio esclusivo di tre persone».
Sergio Marchionne – che la sera precedente aveva anche scritto al presidente Napolitano, dal palco di Rimini, nell’intervento che dice di aver dovuto cambiare negli ultimi giorni per l’escalation della tensione intorno al caso dello stabilimento lucano – torna a ribadire che da parte dell’azienda non c’è stata alcuna volontà di alimentare lo “scontro” che si è andato configurando in questi giorni, e che – dice – è il frutto della contrapposizione di due modelli, «l’uno che si ostina a proteggere il passato e l’altro che ha deciso di guardare avanti».
«Noi – aggiunge – abbiamo scelto di stare al passo con i tempi». Ma «non possiamo tollerare la gravità delle accuse che ci sono state rivolte contro in questi giorni». Poi la proposta: quella di un nuovo “Patto sociale”. L’appello del manager italo-canadese è agli «uomini e donne di virtù», «unici veramente in grado – come insegna la storia – di portare a completamento la rivoluzione culturale di cui l’Italia ha bisogno».
I toni senza precedenti di Marchionne lasciano, almeno nell’immediato, senza parole i due operai. Poi lo sfogo: «Siamo amareggiato e delusi». E rispediscono al mittente le accuse: «L’unico ad alimentare lo scontro di classe è proprio lui». «Si pone come un imperatore romano, al di sopra di tutte le regole», dice Giovanni Barozzino. «Non ha parlato una volta dei lavoratori – continua – Se l’amministratore delegato non ha paura della verità, invece di girare negli stabilimenti americani, venga qui a Melfi a confrontarsi con i nostri legali, con un uomo piccolo come me».
E al numero uno della Fiat, che nel suo intervento ricorda la propria esperienza da emigrante, Barozzino risponde: «Anche io a 16 anni ho dovuto lasciare casa mia per il Canada. Ma non a studiare all’Università, ma a fare l’operaio, per mandare i soldi alla mia famiglia di sei figli, dopo il terremoto dell’80». Marco Pignatelli replica all’ad che contesta il manacto rispetto delle regole: «L’unica a non aver rispettato le regole è la stessa Fiat, che non ha dato attuazione al decreto nel giudice». Poi, sul rapporto di fiducia spezzato, l’operai che alla Sata lavora da 11 anni aggiunge: «In qualche modo io sono stato anche grato all’amministratore delegato per gli sforzi fatti nel 2004 per risanare il gruppo e trasformare Fiat in una grande multinazionale. Ma oggi quelle parole mi hanno completamente umiliato. Forse farebbe bene ricordare anche tutti i sacrifici fatti in questi anni per rendere Melfi uno degli stabilimenti migliori. Qui da poco sono stati festeggiati i 5 milioni di auto prodotte. Un obiettivo raggiunto con i nostri sforzi». Anche Antonio Lamorte commenta a caldo, dicendosi molto rammaricato: « Su questa vicenda Marchionne non ha recepito il messaggio del Capo dello Stato». Da Rimini, a margine dell’intervento ufficiale, l’ad precisa: «Ho grandissimo rispetto per il presidente della Repubblica come persona e per il suo ruolo istituzionale. Per la sua posizione istituzionale accetto quello che ha detto come un invito a trovare una soluzione alla vicenda». A fine serata il Capo dello Stato ringrazia il manager, mostrando riconoscenza ma non senza ricordare la necessità di un confronto che deve coinvolgere le istituzioni e le parti sociali, «nessuna esclusa». Non è vero, scrive Napolitano, che lo «sforzo straordinario» che la Fiat sta compiendo per rilanciare l’azienda sia compreso e valorizzato solo all’estero come lamenta invece l’ad Sergio Marchionne: «Anche in Italia – è la sua convinzione – lo si sa apprezzare». Ma al termine della giornata il messaggio di Fiat sembra chiaro: fino a sentenza definitiva contraria, nel futuro dell’azienda non c’è posto per i tre operai licenziati.
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