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di TOMASO MONTANARI*
Vittorio Sgarbi, Andrea Carandini e altri piccoli e grandi fans del direttore generale per la valorizzazione dei beni culturali, Mario Resca, ci spiegano in questi giorni perché i Bronzi di Riace potrebbero viaggiare. Non ci si può che rallegrare se, da che ci sentivamo tutti commissari tecnici della nazionale, ci siamo elevati fino a sentirci tutti esperti della conservazione dei bronzi antichi. Ma si deve ricordare che né il neosoprintendente di Venezia né l’illustre archeologo che presiede il Consiglio superiore dei Beni culturali hanno titoli per dirimere davvero la questione, tantomeno sui giornali. In attesa che il museo, la soprintendenza e il Comitato tecnico scientifico competente si pronuncino, c’è però qualcosa che piacerebbe vedere dibattuto sui quegli stessi giornali, qualcosa che gli interventi sopra citati si sono ben guardati dall’affrontare: ammesso che i Bronzi possano girare il mondo, perché dovrebbero farlo? Il problema vero del circo delle mostre-evento non è, infatti, quello della tutela delle opere, che si può e si deve assicurare caso per caso, respingendo sia le eventuali impuntature dei conservatori, sia gli (assai più frequenti) abusi dei politici. Il problema vero è quale sia lo scopo, il beneficio, il senso ultimo di questa insensata «circuitazione di opere-icona» (eloquentissima perla di burocratese made in Resca). Ammesso e non concesso che i Bronzi siano in condizione di affrontare un tour mondiale, a cosa servirebbe tutto ciò? Non alla scienza, visto che si tratterebbe di un’operazione-lampo di marketing, e non già di un progetto di lungo periodo mirato a finanziare nuove ricerche e a diffonderne i risultati presso un più largo uditorio. Né gioverebbe all’educazione pubblica, giacché il concetto stesso dell’ostensione del singolo “capolavoro assoluto” è profondamente diseducativo e culturalmente desertificante. Ma questi argomenti vengono respinti con sufficienza, come le ubbie di anime belle incapaci di accettare che l’arte antica sia (anche) business. Il punto vero, dunque, non sarebbe la cultura, ma l’economia: far viaggiare i Bronzi (o Caravaggio, o Raffaello) sarebbe un’operazione di marketing che «porterebbe all’Italia pubblicità e soldi». Ora, è innegabile che una simile tournée si configurerebbe come un’operazione di marketing: ma di marketing politico, non economico. Spedire in giro per il mondo i capolavori del passato come rappresentanti porta a porta dell’Italia del presente è l’ultima trovata di una politica che, invece di provare a costruire il futuro, sa solo proporre al Paese una (stentata) vita di rendita. Ed è inoltre un ottimo pretesto per non affrontare i veri e gravi problemi dello sviluppo turistico: per un governo è certo più facile impacchettare i Bronzi che non affrontare il nodo della Salerno-Reggio, o della inarrestabile colata di cemento che devasta le coste del Mezzogiorno. Il turismo nell’Italia del Sud non decolla come potrebbe perché nel mondo non la si conosce abbastanza, o non piuttosto perché le sue infrastrutture e le sue strutture di accoglienza sono spesso assai lontane dagli standard occidentali? O c’è davvero chi pensa che se, poniamo, un canadese vedesse i due Atleti a Toronto, il giorno dopo correrebbe a comprare un biglietto per la Calabria? L’unico risultato del giro del mondo dei Bronzi di Riace sarebbe quello di rafforzare l’immagine di un Paese straccione capace solo di cannibalizzare il proprio passato glorioso. È di questo che abbiamo bisogno?
*professore associato di Storia
dell’arte moderna, Università di Napoli Federico II
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