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di MARIO NASONE
«Quanto a me, il mio sangue sta per essere sparso in libagione ed è giunto il momento di sciogliere le vele. Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede. Ora mi resta solo la corona di giustizia che il Signore, giusto giudice, mi consegnerà in quel giorno; e non solo a me, ma anche a tutti coloro che attendono con amore la sua manifestazione». Come l’apostolo Paolo di Tarso anche per Paolo Quattrone, il provveditore regionale delle carceri la cui vita si è interrotta tragicamente una settimana fa, si può parlare di una battaglia combattuta, di una corsa terminata. La buona battaglia di una persona che aveva fatto del servizio dello Stato la sua principale ragione di vita, al cui altare ha sacrificato persino la famiglia e gli affetti degli amici, un servitore dello Stato che da calabrese si era messo in testa di realizzare in Calabria qualcosa d’importante e d’innovativo in un settore particolarmente difficile come quello penitenziario. Ci aveva già tentato alla fine degli anni ’80, quando dirigeva il carcere di Reggio Calabria. Erano gli anni della guerra di mafia, dello strapotere della ’ndrangheta che imperava anche dentro le carceri, grazie alle tante collusioni e complicità che aveva con pezzi dello Stato. Un potere che cercò di contrastare con tutti i mezzi senza riuscirci. Con una bomba collocata della camera della sua abitazione di Reggio, la ’ndrangheta gli diede il foglio di via costringendo l’allora capo del Rap Nicolò Amato, per la sua tutela, a trasferirlo a Firenze, affidandogli l’incarico della Direzione del carcere di Sollicciano. Da allora ha ricoperto incarichi di grande responsabilità in diverse regioni del Nord, dove si è distinto per la realizzazione di iniziative di avanguardia nel campo del trattamento e del recupero dei detenuti. Un’azione che aveva coinvolto Regioni ed esponenti politici di diverso colore politico che apprezzavano e sostenevano il suo lavoro. I numerosi messaggi di cordoglio e di stima che stanno pervenendo in questi giorni alla famiglia, da tutt’Italia, sono una testimonianza del lavoro egregio e del ricordo ancora vivo del servizio svolto in quelle regioni. Nel 2002 gli è stata data la possibilità di ritornare in Calabria come provveditore regionale. Un incarico da lui accettato come una vera e propria sfida, cosciente che il suo impegno si calava in una regione difficile, dove è arduo per tutti rinnovare e costruire azioni di cambiamento. In particolare il sistema penitenziario era ingessato. Lo scetticismo era imperante. Per anni il ritornello che si ascoltava era che non si poteva fare nulla nelle carceri calabresi perché c’era la ’ndrangheta, perché gli enti locali erano insensibili, perché la società civile e il volontariato non erano maturi per occuparsi del carcere e del reinserimento sociale dei detenuti. Quattrone lanciò la sua sfida che era innanzitutto culturale. Diceva spesso agli operatori penitenziari: se riusciremo a rinnovare e modernizzare un settore così difficile come quello penitenziario dimostreremo che in Calabria è possibile anche cambiare la sanità, la scuola, le politiche sociali e così via. Riuscì a coinvolgere Regioni, enti locali, le chiese di Calabria, il volontariato, le università e persino le associazioni delle vittime della mafia nei progetti di giustizia riparativa. Aprì le porte del carcere ai mass media e alla comunità esterna. Puntò sul lavoro penitenziario, sull’istruzione e la cultura come elementi fondamentali per il riscatto del detenuto e per il suo rientro nella comunità libera. Con il progetto Athena è riuscito a innovare il sistema penitenziario calabrese, rendendo le carceri più vivibili, attuando il dettato costituzionale sul valore rieducativo della pena, scommettendo sull’inclusione sociale e le misure alternative alla detenzione. Non lo fermarono nemmeno le altre intimidazioni mafiose ricevute. Una sfida vinta, se si guardano gli obiettivi previsti e ampiamente raggiunti, con una punta d’eccellenza nell’istituto sperimentale per giovani di Laureana di Borrello, inserito al secondo posto in Italia, dopo il carcere di Bollate, tra i penitenziari di eccellenza. Aveva un carattere spigoloso e intransigente. Ma lo era, innanzitutto, verso se stesso e poi verso le persone cui aveva affidato fiducia e incarichi. Sempre mosso esclusivamente dall’interesse per lo Stato e per l’amministrazione penitenziaria che era la sua ragione di vita. Forse una maggiore disponibilità alla mediazione gli avrebbe evitato tanti contrasti e ritorsioni che l’hanno fatto soffrire, ma era questo il suo modo di vivere e di interpretare il suo ruolo pubblico. Non era un burocrate, credeva fortemente che leggi e circolari dovessero essere rispettate ma chiedeva a tutti di puntare al conseguimento dei risultati, di assumersi responsabilità nelle scelte. Come ha scritto Giulio Starnini della Società italiana di medicina penitenziaria era “un uomo di Stato, di giustizia, di cultura. Un uomo che era riuscito in Calabria (la regione italiana con il più basso Pil del Paese) a gareggiare per efficienza con il Provveditorato della Regione più ricca di Italia, la Lombardia. Un uomo guidato dalla dignità e dal rispetto verso gli altri, stimato al tempo stesso da detenuti e agenti di polizia. Un uomo che suscitava nei tanti burocrati inetti che popolano l’amministrazione pubblica ai vari livelli, sentimenti di astio perché dimostrazione vivente che le cose debbono e possono cambiare. Dietro la scorza di persona determinata e allenata alle avversità si nascondeva in realtà una persona di grande sensibilità e fragilità che di fronte alle ennesime e ingiuste accuse ha scelto, con un atto di disperato coraggio, di gettare la spugna, di sciogliere le vele. Un gesto che nulla toglie a quanto di buono ha realizzato da “appassionato dell’uomo” come l’ha definito monsignor Iachino, vicario generale, nell’omelia funebre. Continuare nel solco da lui tracciato, non disperdere quanto ha seminato, è un modo per continuare a sentirlo vivo e presente come figlio prediletto di questa nostra Calabria che certamente ha meritato e ricevuto la corona della giustizia.
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