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VIBO VALENTIA – Un percorso lungo quarantanni nel quale si tratteggia tutta la storia della ‘ndrangheta a Vibo Valentia. Bartolomeo Arena, neo collaboratore di giustizia, fa riempire fiumi di verbali nella sua narrazione che ha inizio negli anni ’70 e arriva fino ai nostri giorni e l’operazione Rinascita Scott ne fa pieno e completo uso.

(LEGGI LA NOTIZIA DELL’OPERAZIONE RINASCITA SCOTT)

Nel corso dei primi interrogatori, Bartolomeo Arena ha ripercorso l’evoluzione del sodalizio cittadino a partire dagli anni Settanta, in cui spiccavano le figure di Francesco Fortuna, detto “Ciccio Pomodoro”, e dei capostipiti della famiglia Pardea, detti “Ranisi”. Questi ultimi erano in posizione di supremazia tra gli stessi emergeva la figura di Rosario Pardea.
Successivamente si verificò una divisione in quanto Fortuna decise di staccarsi e di creare un “Corpo Rivale”. Tale distacco si accentuò con la consumazione di alcuni fatti di sangue.

In particolare, Rosario Pardea e tale “Tambuscio” eliminarono un fratello di Rosario Pugliese, il quale precedentemente aveva osato sfidare ed umiliare il primo. Successivamente avvenne una sparatoria presso l’Hotel 501 di Vibo Valentia ad opera di Domenico Servello (fratello del collaboratore Angiolino), che ebbe come conseguenza l’uccisione ed il ferimento di alcune persone. Ciò provocò l’intervento di Fortuna e del suo stretto sodale Antonio Arena – padre dell’odierno collaboratore – i quali uccisero Servello, uomo di fiducia di Giuseppe Mancuso, alias “Mbrogghia”, suscitando pertanto il risentimento da parte di quest’ultimo, il quale dopo vari tentativi riuscì ad uccidere lo stesso Antonio Arena, con la complicità di Nicola Fiarè e Gregorio Gioffrè.

L’intervento di questi ultimi sarebbe da ricondurre all’astio nutrito nei confronti di Arena anche da parte di Rosario Fiarè, il quale mal tollerava le influenze che all’epoca i vibonesi estendevano anche nel territorio di San Gregorio d’Ippona e non aveva digerito un’azione di forza che l’Arena aveva posto in essere in quest’ultimo paese.

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La rottura dell’equilibrio e la fine del “buon ordine”

Il verbale rilasciato da Bartolomeo Arena risale al 18 ottobre scorso: “Quando c’erano i miei familiari, Vibo Valentia era sotto il controllo dei Ranisi, a quel tempo c’erano i Pardea, Rosario Pardea in particolare, che comandavano, almeno fino agli anni ’70-’80, e c’era un unico “buon ordine”; ma poi si sono divisi poiché durante una riunione Domenico Pardea, detto Mico Ranisi, non si presentò, e siccome era la terza volta che accadeva, Ciccio Fortuna, detto “Pomodoro” in quel momento si alzò e fece “corpo rivale”, ovvero disse che da quel momento era lui a comandare».

Era il periodo in cui su Vibo c’era un “buon ordine”, i rapporti sia con i crotonesi che con Peppino Piromalli, con i Mammoliti e con i De Stefano «erano buoni, ma. Nonostante questo, la “Società” non era riconosciuta a Polsi». Arena racconta di aver appreso dal nonno che a fianco a Rosario Pardea c’erano i Pugliese, i Lo Bianco, i Franzè e i Catania, con i primi «che si interfacciavano con tutte le cosche della Calabria, anche i Vrenna di Crotone, con cui c’erano rapporti strettissimi».

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Nel momento in cui ci fu la scissione, i «Lo Bianco e i Barba andarono con Fortuna e così anche i D’Andrea e la mia famiglia, anche se mio nonno a quel tempo era in stretti rapporti con i Mancuso, con Peppe e Diego, che aveva conosciuto e cresciuto in carcere. Mio nonno in quella divisione si era staccato dai Pardea e, con il permesso di Nino Mammoliti, aveva creato una “Locale” a Vibo Marina-Porto Salvo e Bivona nominando Nicola Tripodi quale capo-società».

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L’efferato omicidio di Pugliese

Il neo pentito riferisce poi di un fatto agghiacciante culminato con l’omicidio efferato: «Successivamente, uno dei Cassarola ha umiliato Rosario Pardea dicendogli pubblicamente che gli avrebbe sparato provocandone, quindi, la ritorsione scaturita nell’omicidio del fratello di Rosario Pugliese, un ragazzo che è stato portato a Cosenza e al quale è stata tagliata la testa. Tale “Tambuscio” e Pardea ne furono gli autori».

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Ed è da questo episodio che nasce – a giudizio di Arena – la divisione tra clan a Vibo cui si unisce l’omicidio di Domenico Servello, uomo di Giuseppe Mancuso, per mano del padre del pentito e di Francesco Fortuna. Omicidio che mandò su tutte le furie il boss di Limbadi il quale avrebbe voluto uccidere il genitore di Arena ma gli venne impedito perché «di mezzo si mise la famiglia Raso-Albanese di Cittanova». Ad ogni modo, Arena sparì nel nulla nel gennaio del 1985 e quel fatto decretò l’ascesa di Mancuso a Vibo al punto che «Carmelo Lo Bianco “Piccinni” divenne un riferimento di Antonio Mancuso, mentre Vincenzo Barba lo divenne per Giuseppe Mancuso».

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Francesco Ridolfi

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