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di DOMENICO LARIZZA
Tutti coloro i quali, con voce pressoché unanime, scrivono e parlano di ‘ndrangheta sostengono che questa organizzazione criminale è stata protagonista, negli ultimi anni, di una rapida evoluzione tecnologica e “culturale” che le ha permesso un vero e proprio salto di qualità e, quindi, di espandere il proprio dominio al di fuori dei suoi storici confini territoriali. Sarebbe anche conseguenziale pensare, quindi, che la colonizzazione del mondo da parte della ‘ndrangheta sia stata possibile unicamente attraverso un percorso evolutivo degli “uomini d’onore” che hanno avvertito la duplice esigenza di investire la montagna di denaro contante di cui disponevano (e dispongono) – frutto dapprima dei riscatti pagati dalle famiglie dei sequestrati e, poi, del commercio mondiale della cocaina – e anche di espandere la loro ragnatela di ricchezza e di potere in paesi, anche europei, nei quali il fenomeno mafioso è sottovalutato se non completamente ignorato. Questa tesi dipingerebbe, quindi, il boss come colui che, dalla coppola e la lupara, si è trasformato in uomo in doppiopetto con notevoli capacità operative nel campo dell’alta finanza e degli affari e che, grazie alle sue profonde conoscenze dell’economia e del diritto, è riuscito a scrollarsi di dosso l’odore del gregge, della ricotta e del pecorino per indossare i panni di chi, in prima persona, siede da decisionista al tavolo delle riunioni importanti e nei salotti buoni della borghesia che conta. È senz’altro una teoria affascinante e quasi romantica che potrebbe suscitare l’interesse di qualche sceneggiatore per qualche fiction sul tema ma che, a mio parere, non trova riscontro nella realtà di questa terra dilaniata e nella personalità degli uomini e delle donne di ‘ndrangheta. Chiaramente non metto in discussione tale salto di qualità; non ho dubbi sulle disponibilità finanziarie che permettono a questi personaggi di controllare il mercato mondiale della cocaina né contesto gli investimenti milionari che la ‘ndrangheta sta ancora ovunque effettuando in immobili, in attività economiche e finanziarie con la capacità di spostare ingentissimi capitali da una parte all’altra della terra. Ciò che non mi torna è che tale erudizione e capacità operativa possa essere propria dei mammasantissima o dei loro stretti congiunti, per non parlare dell’esercito dei piccoli ‘ndringhitini imbecilli e morti di fame che, per cinquanta euro, sono disposti ad incendiare un autovettura o mettere una bomba a qualche saracinesca; giovani idioti senza futuro che, giusto per darsi un tono da don Vito Corleone, camminano con andatura ondulatoria (cosiddetto ‘nnacamentu) e si chiamano tra loro con l’appellativo di “compare” seguito da due sonori baci sulle guance e stretta di mano, preferibilmente bene aperta e leggermente obliqua. Nel corso dello svolgimento della mia professione al servizio della magistratura e della collettività ho avuto l’opportunità di occuparmi di molte questioni che hanno riguardato diverse famiglie di ‘ndrangheta e mai mi è parso di trovarmi di fronte a persone particolarmente colte e capaci di utilizzare strumenti finanziari e giuridici complessi. Spesso, invece, la mia attenzione si è soffermata – tranne rarissimi casi contrari – sulla loro grande intelligenza, furbizia e finezza di ragionamento; sui loro modi apparentemente garbati e sugli atteggiamenti formalmente cordiali e rispettosi. Ma un cervello fine e un’ intelligenza acuta non sono di per sé sufficienti ad utilizzare gli strumenti complessi che la globalizzazione oggi impone; e se tali strumenti non si conoscono perfettamente occorrerà cercare la collaborazione ed i servizi di chi, invece, ha la capacità di dominarli. Se questa constatazione è corretta occorre necessariamente sostenere che la rete di connivenze dei cosiddetti colletti bianchi con la ‘ndrangheta non ne costituisce semplicemente lo strumento operativo sui mercati del mondo ma, addirittura, l’ossatura ed il pilastro portante. L’azione sempre più incisiva della magistratura reggina e i provvedimenti giudiziari emessi a carico di soggetti appartenenti (o sospettati di appartenere) alla ‘ndrangheta hanno evidenziato la sempre più raffinata azione sul campo dell’organizzazione criminale per eludere le diverse disposizioni di legge sulle misure di prevenzione attraverso l’utilizzo di prestanomi intestatari di rilevantissime fortune investite con oculata diversificazione in quasi tutti i settori dell’economia. E gli operatori, i giornalisti e studiosi del fenomeno mafioso (Gratteri, Nicaso, Forgione, Baldessarro, Bolzoni, Saviano, solo per citarne alcuni senza desiderare di scordarne altri) hanno dimostrato che questa capacità di mimetizzarsi deriva da una profonda conoscenza, non soltanto delle leggi che governano la finanza, ma anche di quelle, altrettanto complesse, che disciplinano l’universo del diritto societario, anche internazionale. A riflettere su tali questioni, e a legare le stesse con la recente storia della ‘ndrangheta, è possibile immaginare che la proiezione dell’organizzazione criminale sugli schermi delle borse mondiali sia da datare nel momento in cui, a dispetto delle opinioni dei vecchi capi bastone, le nuove leve del crimine, certamente con una diversa lungimiranza imprenditoriale, hanno compreso l’importanza di creare un intreccio serrato di rapporti con la società civile e, particolarmente, con quei settori della stessa riferibili alle professioni, agli alti funzionari e alla classe politica. Ed è proprio alla luce di tale esigenza che può essere letta la creazione della “Santa”, quale organismo sovraordinato alla ‘ndrangheta, i cui adepti chiesero e trovarono ingresso nell’oscurità delle sette massoniche e, quindi, crearono i primi rapporti con la borghesia che conosce le leggi del mondo ed anche i suoi antidoti. Proprio da qui, allora, parte la grande corsa espansionistica e imperialista dell’organizzazione criminale, da questa fusione tra chi illecitamente produce montagne di profitti e chi, altrettanto illecitamente, conosce i segreti per il loro proficuo reimpiego. Appare, quindi, chiaro che la lotta contro la ‘ndrangheta non può indirizzarsi unicamente all’ala imprenditoriale, militare e bestiale della stessa ma deve mirare anche e soprattutto alla sua componente “intellettuale” che, come già sottolineato, non sembra assolutamente coincidere con i capi locale né può essere semplicemente considerata collusa e connivente con questi ma, probabilmente, assolutamente organica all’associazione criminale stessa, unitamente alla quale cura, a valle, la gestione del fiume di denaro prodotto. Come ho già avuto modo di scrivere, la difficilissima battaglia nei confronti della cosiddetta zona grigia dei professionisti, funzionari e politici servitori della ‘ndrangheta non può essere affrontata senza il forte coinvolgimento della società civile, degli uomini e donne perbene che hanno a cuore un futuro libero per loro e per le generazioni a venire. E tale impegno diretto deve, ovviamente, essere preteso con assoluta garanzia per l’incolumità personale di chi sente prepotentemente di dover manifestare il senso di indignazione di fronte a questa società offesa e a questa democrazia malata. Ma una diversa soluzione, un modo differente di prendere parte attiva a questa lotta senza assumere rischi forse potrebbe anche esserci. Una delle differenze antropologiche tra le città e i paesi meridionali rispetto a quelli del Nord Italia è legata al diverso senso di appartenenza alla comunità e, particolarmente, alla naturale creazione di rapporti interpersonali forti che si manifestano nell’ormai riconosciuto senso di ospitalità e solidarietà delle popolazioni del mezzogiorno, soprattutto nei confronti dei propri conterranei. Tali valori, assolutamente positivi in linea di principio, permettono quindi, al Sud, di vivere in comunità “aperte” in cui, sia nei piccoli centri che in una città come Reggio Calabria, tutti conoscono praticamente tutti; di ogni famiglia si conosce la storia, di ogni persona le sue frequentazioni. Questa specie di esistenza quasi priva di intimità, oltre che per fattori culturali, deriva anche da una diffusa mentalità che, se per un verso coincide con evidenti atteggiamenti di omertà, dall’altro, invece, si manifesta non di rado con una irrefrenabile curiosità per le vite degli altri la quale, anche per sentimenti d’invidia, sfocia spesso nel pettegolezzo che, scriveva Fabrizio De André, “come la freccia dall’arco scocca, corre veloce di bocca in bocca”. Se, quindi, noi al sud siamo tutti soggetti “pubblici”, se della mia persona si conoscono gli amici, le frequentazioni, le idee e, certamente, anche i nemici, è facile comprendere come le medesime notizie posso essere assunte nei confronti di chiunque e, soprattutto, verso chi, proprio per la sua appartenenza ad una categoria sociale “privilegiata” e per questo più visibile, suscita maggiore interesse e desiderio di sapere della sua vita, dei suoi soldi e anche, spesso, dei suoi amori. Allora proprio questa caratteristica della gente del Sud può essere sfruttata nella lotta contro la ‘ndrangheta. Conoscere, anche per sentito dire, la vita e gli orientamenti della classe borghese di una città o di un paesino significa necessariamente sapere anche quali categorie di soggetti si rivolgono a determinati professionisti, a particolari direttori e funzionari di banca, a precise personalità della politica. E queste informazioni vanno sfruttate bene da parte della società civile. Se ho problemi di salute non mi rivolgo al medico che cura i latitanti o dà consigli al capo clan per simulare particolari patologie incompatibili col regime carcerario; se devo difendermi in un processo non mi affido all’avvocato che difende abitudinariamente i mafiosi; se ho un impresa non incarico il commercialista che tiene la contabilità delle imprese di ‘ndrangheta e che offre le sue conoscenze per camuffare al meglio le operazioni di riciclaggio attraverso buoni consigli per costituire società il più possibile anonime, anche di diritto internazionale; se devo aprire un conto corrente non concedo i miei soldi alla banca che investe il denaro sporco delle organizzazioni criminali; se ho dignità e rispetto della mia persona non voto il politico per conto del quale la ‘ndrangheta raccoglie i consensi. Ma se tutto questo sono il solo a farlo sarò stato semplicemente coerente con i principi in cui credo. Se, invece, tutti gli uomini e donne perbene lo fanno diventa una rivoluzione. Isolare la classe dirigente collusa, connivente e organica alle associazioni criminali equivale a disarticolare la ‘ndrangheta, disorientarla, renderla vulnerabile e maggiormente individuabile; significa anche che i professionisti e politici corrotti, se non per crisi di coscienza ma per bisogno o senso di vergogna, sentiranno via via l’esigenza di prendere le distanze da certe logiche di potere e di affari sporchi, pur di non essere allontanati ed evitati da una società civile alla quale desiderano comunque appartenere. Si tratta, quindi, di effettuare una semplice scelta; una scelta, però, dalla quale può partire un grande cambiamento per la libertà. Una scelta che permetterebbe di togliere la linfa di cui la ‘ndrangheta si nutre; che costringerebbe nuovamente i boss ad indossare la coppola, a pascolare il gregge e a nascondere i soldi insanguinati sotto il materasso.

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