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RENDE – Il dolce e l’amaro. La mattinata dedicata a Sibari e, per iperbole, alla cultura calabrese ha avuto un po’ il sapore della vita: dolce e amaro. La dolcezza del ricordo dei fasti di Turi e di Copia, raccontato con il sorriso e la sapienza della professoressa De Sensi Sestito e l’amarezza sul volto del direttore del Quotidiano della Calabria Matteo Cosenza nell’annunciare la morte di Saverio Strati (LEGGI). La dolcezza del ricordo di studiosi e intellettuali che nel minuto di silenzio hanno ricordato lo scrittore calabrese scomparso, e l’amarezza nel constatare che gran parte della platea di Strati non aveva mai sentito parlare. Nel gelo del pubblico, formato in gran parte di studenti di liceo, ma anche di molti insegnanti, gli sguardi correvano da una parte all’altra del Piccolo teatro dell’Unical che ha ospitato la manifestazione, chiedendosi, con manzoniana memoria, “chi era costui?”.

Sibari e Strati. Grandezze dimenticate, in pensieri paralleli. Magari qualcuno di quegli studenti presenti ieri al convegno, qualcuno dallo sguardo e dalla mente più aperta, oggi avrà la curiosità di andare a scoprire chi fosse Saverio Strati. Così come avrà la curiosità di andare a visitare, o a rivisitare, quegli Scavi di Sibari che giacciono a pochi chilometri dalle loro case e dalle loro scuole (i ragazzi venivano da Rende, Acri, Castrolibero e Cassano), cuore pulsante di quella Magna Grecia sulla quale si fonda la cultura meridionale. E non solo. Sibari è stata la grande protagonista di questa giornata di Primavera, organizzata dal Quotidiano insieme all’Università della Calabria, e che ha offerto sguardi non convenzionali sull’area archeologica e sui temi della grande bellezza e delle grandi miserie dei beni culturali calabresi. 

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Si parla di splendori attraverso le relazioni, snelle e dense, dei relatori, attraverso le immagini di un video, ma si parla anche di incompetenza, di superficialità, di incuria. Dei disastri ambientali che l’uomo crea, degli atti di ribellione che la natura mette in atto quando si va verso di essa con la forza – come ribadisce il rettore Gino Crisci nelle vesti comode di ordinario di Petrologia – senza assecondarla, senza alcun rispetto. O, come sottolinea l’architetto Prosperetti del Mibac, quando si piantano agrumeti sugli argini di un fiume senza che nessuno si ponga il problema di impedirlo. Le conseguenze, manco a dirlo, si traducono in esondazione. La stessa che quindici mesi fa ha sommerso gli Scavi di Sibari. E che oggi ha lasciato quel fango secco, come profonde rughe, sui mosaici, sui resti dell’anfiteatro, sulle colonne e su tutto quello che, faticosamente nei decenni, era stato portato alla luce.

I ragazzi delle scuole, gli studenti universitari, che riempiono interamente il teatro, ascoltano con un’attenzione insolita per un convegno scientifico, e nonostante lo smartphone in mano, anche i gruppetti a margine sembrano riscoprire un interesse inaspettato verso i fasti dei loro antenati. Un fascino che scavalca i tempi e le mode. Benchè «con la cultura non si mangia» – cita il professor Dacrema ricordando l’improvvida frase di un ministro italiano – è la cultura che ci forma. «L’arte – continua ancora il professore nel suo brillante intervento– è la parte eccellente dell’economia». 

La platea ascolta, annuisce, applaude ogni intervento. Alla fine la consegna della cifra raccolta con la sottoscrizione promossa dal Quotidiano rappresenta un gesto simbolico di come ciascuno di noi dovrebbe diventare parte attiva di una storia. Della nostra storia. Di come una comunità dovrebbe prendere coscienza che le eredità vanno accolte con animo grato e mantenute con cura e rispetto. Un atto d’amore e un orgoglio di appartenenza, da offrire alle generazioni che seguiranno.

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