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di GIUSEPPE ROMEO
L’animata direzione del Pdl si è dimostrata, nella sua caoticità, il punto di non ritorno di un’idea di partito di destra, occidentale e conservatore che non è andata oltre la sua invenzione, quella da formula calcistica di tifoseria di piazza: restare il partito del predellino. Oggi tutti siamo stati testimoni di come un partito unico solo nella sua virtualità sia vittima di un confronto dissacrante su modi diversi di intendere la politica, quella vera se ancora vi è un barlume di luce. Ostaggio di una deriva populistica e padronale imperante. Ebbene in tutto questo c’è una lezione che emerge e si spiega da sola agli osservatori più attenti. E cioè che l’anima del passato torna a chiedere il conto delle scelte fatte. Certo, è un conto difficile da pagare quello dovuto alla storia. Un conto difficile da spiegare ai cittadini ma è un conto necessario per due ordini di motivi. Il primo perché chiarifica a Gianfranco Fini chi sono stati i veri beneficiari del traghettamento nel Pdl, chi sono i veri amici, quanto dura un’amicizia politica e soprattutto quanto, prima o poi, la storia e la verità storica ti chieda di onorare il pedaggio di scelte che non possono essere il risultato solo di un sentimento di opportunità. Il secondo è quello che riguarda il presidente Berlusconi. Una politica personalistica, costruita nell’accreditarsi in un mondo nuovo ma decisivo per il suo futuro, decidendo di scendere in campo sostituendosi al dissolvimento dei leader che lo hanno sostenuto come imprenditore. Una politica da costruire su misura se possibile servendosi delle anime ambigue del liberalismo, del nazionalismo e del socialismo italiano. Anime alla ricerca di una possibilità di sopravvivere alla storia, e a tangentopoli, in un sistema nuovo di relazioni più strette. Anime utilizzate sin tanto che necessario e poi ripagate con il mantenimento di qualche seggio, ma esautorate, man mano che si rendevano sempre meno funzionali al successo, da ogni incarico di governo se non proprio dal partito. Il conto che si presenta al leader del Pdl è il risultato di una deriva populistica costruita con l’uso sapiente della piattaforma dei media che ha un valore ma che crea anche, spesso, disvalori. Una deriva strutturata su valori di successo, di immagine che creano virtualmente modi di vita e di pensiero che si sono trasformati in consenso su una tavola imbandita di obiettivi irrealisticamente possibili per i più. Una deriva totalizzante nei modi di vedere, nei punti di vista, nel rifiutare ogni confronto anche il più antipatico ma necessario se si vuole combattere nell’arena politica difendendo i propri argomenti e affermando idee. Una deriva dell’ego che ha annullato nel tempo meritocrazia, cultura e capacità critica di analisi del cittadino, che ha ridotto il senso minimo possibile e sostenibile della credibilità delle istituzioni, magistratura compresa. Oggi il Pdl rischia di pagare il prezzo dei valori fondamentali processati all’interno di un orizzonte di facili promesse tipiche di un gioco televisivo; valori resi inutili o sfilacciati per affermare una politica edonistica volutamente presentata e discussa nei talk show di servizio piuttosto che in aula o nelle piazze. Il prezzo che paga il leader del Pdl, e l’anima forzista, non è solo rappresentato dall’aver abdicato a favore della Lega per un successo momentaneo, né dal perdere sondaggisticamente due, tre o altri punti/percentuale. È il prezzo di una politica costruita su una visione limitata del mondo, attagliata sulla propria percezione di se stesso favorita dalle lusinghe di una corte che vive e sopravvive all’ombra del leader. È il prezzo pagato da un partito ancora oggi senza contenuti, che ricorre a slogan preconfezionati luoghi comuni, happening del momento che ricordano il miglior uso delle promozioni pubblicitarie. È il prezzo di una concezione dello Stato, delle sue istituzioni che trasforma tutti noi in un prodotto da vendere. È il prezzo di un’incompatibile convinzione utilitaristica dell’azione e del ruolo della politica con il senso dello Stato. È il costo di una prospettiva esclusiva di una concezione di governo di un Paese che vuole andare, imponendosi, al di sopra di qualunque ragionevole diritto a includere chi ha a cuore l’Italia o chi dell’Italia ha un’altra visione cha va oltre un federalismo pretestuoso o una prospettiva veteroaziendalistica che si è affermata in questi ultimi anni. È il costo di una democrazia governata che si paga prima o poi e che frantuma lo stesso consenso di cui ci si vanta. La politica di un movimento, di opinione o meno, non è realizzabile al di fuori del confronto. Nella tradizione occidentale non esistono leader maximi da qualche decennio a questa parte e anche Putin, grande riferimento, diventa a sua volta più mite in una Russia che cambia. Esistono, nel bene e nel male momenti e occasioni di confronto dove la dialettica non è solo sterile dissenso o metastasi del movimento o del partito, ma è necessità di giungere ad una sintesi nell’azione politica più opportuna da condurre perché più largo è il consenso all’interno maggiore sarà l’aderenza a ciò che l’elettorato vuole. Qui non si tratta più di rispondere a Scalfari su cosa vorrà fare Fini da grande, né quanto il senso di sé e dell’individualismo del successo da self made man di un capo dell’esecutivo possa rappresentare una giustificazione per annichilire – con la compiacenza di chi è entrato per tempo nella corte – una tradizione di democrazia non solo istituzionale ma anche culturale. Qui non si tratta di verificare se ci sarà una rottura insanabile all’interno del Pdl, partito nato fragile da sempre. Si tratta di saggiare la lealtà, l’onestà intellettuale di una classe politica che subisce la deriva dell’incoerenza più evidente messa da parte per propri egoismi di palazzo. Qui si tratta di verificare se, ancora una volta, vi sia una sostenibile credibilità per rinnovare non lo Stato, ma il modo e il cuore di fare politica per l’Italia Paese e per tutti i cittadini onesti. Perché la democrazia, citando chi ne ha conquistato il diritto sulle piazze e contro la tirannia “.non è solamente la possibilità e il diritto di esprimere la propria opinione, ma è anche la garanzia che tale opinione venga presa in considerazione da parte del potere, la possibilità per ciascuno di avere una parte reale nelle decisioni.” ( Alexander Dubcek).

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