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In prossimità del 25 aprile mi piacerebbe sollecitare un’ampia riflessione prendendo spunto dal tema della Costituzione, visto che il momento attuale ci consegna un quadro politico di segno neoconsociativo e un clima di feroce ostilità e di seria minaccia per la democrazia italica, da sempre fragile e mutilata, sancita solo sulla Carta Costituzionale.
Personalmente sono convinto che la Costituzione del 1948 non abbia bisogno di lifting o rifacimenti, non debba essere aggiornata o revisionata, e tantomeno abolita, come insinuano i suoi detrattori, ma deve essere semplicemente e finalmente applicata. Solo concretizzando i dettami costituzionali sarà possibile far rinascere il Paese, sarà possibile promuovere un’effettiva emancipazione in senso espansivo e progressista della società in cui viviamo, liberando le straordinarie potenzialità civili e culturali, etiche e spirituali in essa presenti, ma anche le forze produttive imprigionate ed umiliate nell’attuale fase storica di regressione e di imbarbarimento politico, morale e culturale.
Tuttavia, se devo essere sincero, sono piuttosto perplesso e pessimista. In primo luogo perché temo che la nostra bellissima Costituzione sia in qualche misura eversiva e inapplicabile nell’attuale ordinamento economico, politico e sociale, segnato da profonde e insanabili contraddizioni, che si possono eliminare solo abbattendo e superando il sistema capitalistico che le ha generate e che contribuisce a perpetuarle.
In secondo luogo, con il quadro parlamentare e governativo uscito rafforzato dalle recenti elezioni regionali, francamente non riesco a far finta di nulla e non posso non nutrire seri dubbi sulle effettive possibilità di applicare finalmente il dettato costituzionale. Invece, mi pare più facile immaginare e prevedere un’iniziativa per stravolgere il testo costituzionale mediante una sorta di “grande inciucio”, ossia un’ampia intesa parlamentare di stampo neoconsociativo sul tema delle cosiddette “riforme costituzionali” (ma sarebbe più corretto definirle “controriforme”), tanto attese e invocate non solo dalla coalizione di centro-destra guidata da Silvio Berlusconi.
Occorre ricordare la matrice sovversiva e criminale della banda filo-berlusconiana giunta stabilmente al governo, che sta sfasciando le istituzioni, i diritti e le garanzie costituzionali. Il pericolo costituito dal nuovo fascismo, dalle forze che governano l’Italia, è persino più grave del passato, considerando il mix di populismo, razzismo e affarismo sfrenato che ispira il blocco politico e sociale che fa capo al bandito di Arcore.
Dunque, in Italia incombe una vera emergenza democratica. Persino in Parlamento è stata eliminata ogni forma di dissenso e libera opposizione. Tranne forse Di Pietro, resta in campo la finta ed evanescente “opposizione” di D’Alema, Bersani e soci, dietro cui si annida una pratica neoconsociativa. Suggerirei di riflettere su quanto scriveva Antonio Gramsci a proposito del “sovversivismo delle classi dirigenti”. Inoltre, 35 anni fa Pasolini aveva preconizzato l’avvento di un nuovo fascismo, a condizione che questo si auto-proclami “democratico” e si ripari sotto le mentite spoglie dell’”antifascismo”. Mi pare che ciò rispecchi esattamente il quadro storico in cui si è compiuta la “metamorfosi” della destra neofascista (ex MSI) per accedere al governo del Paese, sdoganata e traghettata verso il PDL dal populismo berlusconiano. Ma la citazione di Pasolini si adatta anche per inquadrare la “metamorfosi” degli eredi del PCI, in primo luogo il PD.
Il sottoscritto si schiera tra quanti sono convinti che non esista alcuna differenza tra PD e PDL, eccetto la “L” in più nella sigla del partito di plastica di Berlusconi. Per il resto conviene stendere un velo pietoso. Non a caso fu coniata la formula “Veltrusconismo” per designare la funzionalità di entrambi (PD e PDL) ad un progetto neogolpista attuato in forme apparentemente soffici e indolori, un disegno di stabilizzazione neocentrista e neoconservatrice che fa capo ai due soggetti “protagonisti e antagonisti” della scena politica nazionale, destinati a governare insieme la fase della “Terza Repubblica”.
Tuttavia, al di là di queste note pessimistiche, faccio prevalere ciò che Gramsci definiva “l’ottimismo della volontà”. Per cui, non solo in veste di cittadino, ma altresì di insegnante, sono interessato a trasmettere alle nuove generazioni i valori ideali insiti nella Costituzione, di cui bisogna far conoscere ed apprezzare la bellezza poetica. Non a caso, alla stesura del testo costituzionale parteciparono le migliori menti politiche e letterarie dell’epoca: su tutti cito la straordinaria figura di Piero Calamandrei.
La Costituzione è la madre della democrazia italiana, indubbiamente scalcagnata e malandata per varie ragioni storiche e politiche. La Costituzione ne incarna idealmente il ricco patrimonio valoriale, perciò leggerla è il miglior modo per festeggiarla e proporla ai giovani, ed è forse il miglior modo per educare ed ispirare le nuove generazioni.
Pertanto, approfitto per denunciare una grave mistificazione ideologica che si perpetua da anni nel nostro sciagurato Paese. Quella di occultare le origini della democrazia italiana, benché istituita solo sulla carta. E’ opportuno ricordare che la Costituzione del 1948 (e, con essa, la democrazia, sebbene solo formale) affonda le sue radici storiche e ideali nella Resistenza contro l’occupazione nazi-fascista imposta durante la seconda guerra mondiale. Dalle ceneri della monarchia sabauda e della dittatura fascista di Mussolini è nata la Costituzione ed è risorta la civiltà democratica del popolo italiano.
Il 25 aprile è senza dubbio una festa partigiana, cioè di parte, e non può essere diversamente. Pretendere che il 25 aprile diventi una “festa di tutti”, una sorta di ricorrenza “neutrale”, equivale a snaturare e azzerare il valore simbolico e politico di quella che è la Festa per antonomasia della Resistenza partigiana e antifascista. Infatti, il 25 aprile si festeggia, ovvero si dovrebbe rievocare e, in qualche misura, rinnovare la vittoria della Resistenza popolare partigiana contro l’invasione nazista e contro i fascisti che flagellarono l’Italia per un tragico ventennio, conducendo il Paese verso la rovina, costringendo il nostro popolo alla catastrofe della seconda guerra mondiale, in cui intere generazioni di giovani proletari furono sfruttati come carne da macello per arricchire e ingrassare una ristretta minoranza di affaristi, speculatori e guerrafondai senza scrupoli.
Da quella Liberazione nacque la Costituzione del 1948, scritta non tanto con la penna, quanto con il sangue di tante donne e uomini che sacrificarono la propria vita per la libertà delle generazioni successive: donne e uomini chiamati “partigiani” proprio perché schierati e militanti da una parte precisa, contro il fascismo, l’imperialismo e la guerra.
Il carattere apertamente antifascista e partigiano, egualitario, democratico e pluralista, pacifista e internazionalista della Costituzione, la rende un testo all’avanguardia, addirittura rivoluzionario sul piano internazionale, ma è anche il motivo principale per cui essa è invisa, temuta e osteggiata nei settori più oltranzisti e reazionari della società italiana, ed è la medesima ragione per cui essa è negata e disattesa nella realtà concreta. E’ superfluo elencare gli articoli della Costituzione reiteratamente violati e traditi, a cominciare dall’art. 11, in cui emerge lo spirito pacifista e internazionalista della Costituzione del 1948: “l’Italia ripudia la guerra (…)”, è l’incipit dell’articolo.
Questa è una preziosa lezione della storia che oggi, in tempi bui, dominati dall’indifferenza, dal fatalismo, dall’apatia e antipatia politica, si tenta di mettere in discussione e addirittura negare alle giovani generazioni. Questo “fatalismo”, assai diffuso tra la gente, è il peggior nemico della gente stessa, in quanto induce a pensare che nulla possa cambiare e tutto sia già deciso da una sorta di destino superiore, una forza trascendente contro cui i miserabili sarebbero impotenti, ma così non è.
In materia di fatalismo, indifferenza e apatia politica, non si può non citare un famoso pezzo giovanile di Antonio Gramsci, “Odio gli indifferenti”, in cui il grande comunista sardo scriveva che vivere vuol dire “Essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti. L’indifferenza è il peso morto della storia (…) Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti”. Questo è il miglior messaggio che si possa trasmettere ai giovani, una sorta di inno che esprime in forma lirica e nel contempo in modo inequivocabile, l’amore per la vita e la libertà, tradotte in termini di partecipazione attiva alle decisioni che riguardano il destino della collettività umana.
Sempre in tema di assenteismo e non partecipazione alla vita politica, rammento un celebre brano di Bertolt Brecht: “Il peggior analfabeta è l’analfabeta politico”. Non c’è nulla di più vero e più saggio. Brecht sostiene che l’analfabeta politico “non sa che il costo della vita, il prezzo dei fagioli, del pesce, della farina, dell’affitto, delle scarpe e delle medicine dipendono dalle decisioni politiche. L’analfabeta politico è talmente asino che si inorgoglisce, petto in fuori, nel dire che odia la politica. Non sa, l’imbecille, che dalla sua ignoranza politica nasce la prostituta, il minore abbandonato, il rapinatore e il peggiore di tutti i banditi, che è il politico disonesto, leccapiedi delle imprese nazionali e multinazionali.”. Ed io vorrei aggiungere: “delle imprese locali”.
Nella circostanza odierna mi preme rilanciare l’idea della Politica in quanto espressione della volontà popolare e della libera creatività dell’animo umano, che si concretizza nel confronto interpersonale, nella pacifica convivenza e nella dialettica democratica e pluralista tra persone libere ed uguali, ovviamente diverse sul versante spirituale e culturale. Inoltre, la Politica dovrebbe essere un mezzo di aggregazione e partecipazione sociale, uno strumento diretto e corale per intervenire concretamente sui processi decisionali che investono l’intera comunità, una modalità di socializzazione tra gli individui, la più elevata e raffinata forma di socialità umana. Del resto, l’antica etimologia del termine, dal greco “Polis” (città), indica il senso della più nobile attività dell’uomo, denota la somma manifestazione delle potenzialità e delle prerogative attitudinali dell’essere umano in quanto “animale politico”. Tale capacità dell’uomo si estrinseca nella Politica come organizzazione dell’autogoverno della Città.
Il senso originario della Politica si è svuotato ed è degenerato nella più ignobile “professione”, nell’esercizio del potere fine a se stesso, riservato agli “addetti ai lavori”, ai carrieristi e affaristi della politica. Quella che un tempo era una “nobile arte”, la suprema occupazione dell’uomo, oggi è percepita e praticata come mezzo per impadronirsi della città e delle sue risorse territoriali, una squallida carriera per mettere le proprie luride mani sulle ricchezze del bilancio economico comunale. Un bene che, invece, dovrebbe appartenere a tutti ed essere gestito dalla comunità dei cittadini.
La nuova Resistenza è l’opposizione a questo stato di cose, è la rivolta contro una visione e una pratica del potere come appannaggio di un’esigua minoranza di privilegiati, ossia i padroni del Palazzo. Tale situazione va respinta e combattuta con fermezza, perché il soggetto che si organizza in comitato o partito politico, convenzionalmente definito “ceto politico dirigente”, non appena conquista il privilegio derivante dal potere esclusivo sulla Città, si disinteressa del bene comune per occuparsi dei loschi affari della casta, o dei singoli individui. Questo stato di corruzione della politica, che non coincide con un’esperienza di autogoverno dei cittadini, ma risponde agli interessi egoistici e corporativi di una cerchia elitaria e circoscritta, è la causa principale che genera un sentimento di indifferenza e disaffezione dei cittadini verso la politica, cioè il governo della Polis, in quanto rappresentativo degli interessi privati di pochi affaristi, nella misura in cui tali vicende sono recepite come estranee agli interessi della gente.
Pertanto, occorre rilanciare l’idea dell’autogestione e dell’autogoverno dei cittadini, sperimentando nelle comunità locali l’idea della politica come rifiuto radicale del potere scisso dalla collettività, come partecipazione diretta della popolazione ai processi decisionali, ai canali di controllo e gestione del bilancio economico comunale.
L’utopia della democrazia diretta non è solo possibile e praticabile localmente, ma è necessaria di fronte all’avvento di un fenomeno autoritario globale che minaccia quel poco di sovranità democratica vigente in alcuni Stati nazionali. I quali sono soppiantati da organismi economici sovranazionali che dirigono le dinamiche dell’economia e dei suoi assetti bancari e finanziari. Questo fenomeno di globo-colonizzazione ha favorito l’ascesa dei gruppi finanziari più forti e delle corporation multinazionali, con danni irreparabili per i diritti civili e sindacali, le libertà democratiche, i redditi dei lavoratori del sistema produttivo, la cui condizione si fa sempre più precaria e ricattabile.
Lucio Garofalo
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