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E’ finito con una condanna a 3 anni e 4 mesi di reclusione il processo al 41enne Damiano Villari, che nella veste di direttore del Cafè de Paris (prestigioso locale di via Veneto negli anni della ‘dolce vità), il 3 giugno del 2006, abusò di una sua dipendente. I giudici della nona sezione penale del tribunale di Roma (presidente Roberto Mendoza) hanno creduto alla tesi della violenza sessuale, aggravata dall’abuso di relazione d’ufficio, sostenuta dal pm Roberto Staffa che pure aveva sollecitato per l’imputato una pena inferiore a due anni e 5 mesi di carcere. Il collegio è andato oltre infliggendo a Villari, oltre alle spese di giudizio, anche diecimila euro di provvisionale, più i danni da liquidarsi in separata sede, 5 anni di interdizione dai pubblici uffici e 10 anni di interdizione in perpetuo dalla tutela e dalla curatela.
Stando all’accusa, l’imputato avrebbe desiderato ardentemente avere un rapporto sessuale con la sua dipendente. Se lei avesse accettato le avances, in cambio avrebbe ottenuto alcuni giorni di permesso in più. Ma la donna non fu al gioco e subì la violenza.
Villari, così recita il capo di imputazione, «dopo averla scaraventata contro la porta, con una mano le bloccava la testa e con l’altra la toccava prima al seno e poi, al di sopra dei pantaloni, le parti intime; quindi, dopo averla scaraventata sopra la scrivania, si poneva con il proprio corpo sopra di lei, e quindi, reiterava i medesimi atti sessuali».
Al di là di questa vicenda, di Villari si è tornati a parlare un anno fa circa nell’ambito di una indagine condotta dallo Scico della Guardia di Finanza e dai carabinieri del Ros, su delega della Direziona distrettuale antimafia di Roma e Reggio Calabria, sulle attività illecite che alcune cosche calabresi svolgevano nella capitale investendo gran parte dei loro capitali in attività commerciali. Dagli accertamenti era risultato che un barbiere originario di Santo Stefano di Aspromonte, appunto Villari, risultava il titolare di ristoranti di lusso romani (oltre al ‘Cafè de Paris’ anche il ‘Georgès’ di via Marche). Le indagini erano partite proprio dall’esame dei beni intestati al barbiere, che per gli investigatori risultava essere soltanto un ‘prestanomè per conto della cosca di Vincenzo Alvaro, capo dei comuni del versante pre-aspromontano della provincia di Reggio Calabria. Circostanza da sempre negata dallo stesso Villari.

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