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di VINCENZO TUFANO

Signor Presidente, signori rappresentanti del C.S.M. e del Ministro della Giustizia, Autorità tutte, Signore, Signori.
Da 17 anni prendo la parola in questa solenne cerimonia e da 11 quale procuratore generale della Repubblica (oggi come facente funzioni), ma questo è, per me, un anno assolutamente speciale perché compio, grazie a Dio, 50 anni di toga.
Nei pochi minuti concessimi voglio continuare, oggi, ancora per una volta e concludere quel discorso ininterrotto e unico che ho cominciato a gennaio 2005, qui, in quest’aula, quel discorso del quale, come voi tutti ben sapete, non ho mai perduto il filo.
L’anno appena trascorso ci ha recato ulteriori novità nel segno di una progressiva confortante affermazione della cultura della giurisdizione su quella della inquisizione e questo è, per noi, motivo di profonda soddisfazione.
Grazie alla cultura della giurisdizione, l’anno appena trascorso ci ha fornito la ulteriore e credo definitiva dimostrazione di quello che più di tutto ci stava a cuore e cioè che il legittimo esercizio del potere-dovere di sorveglianza del procuratore generale su uffici sottordinati non è un attacco ai pubblici ministeri sottordinati, non è guerra tra uffici e che la insofferenza al controllo non può essere intesa come guerra tra uffici.
Grazie alla cultura della giurisdizione, le nostre sofferenze non sono state vane.
Sono servite a dimostrare che la vigilanza, se esercitata nel pieno rispetto delle regole, non deve temere alcuna intolleranza.
Sono servite a gettare le basi per la rifondazione del clima di serenità di adesso.
Un clima di serenità al quale non è estraneo lei, presidente Ferrara, con il suo equilibrio, con il suo garbo, con la sua attenzione costante ai valori fondanti della giurisdizione. E di ciò sento il dovere di darle atto pubblicamente al di là della stima e della amicizia che ci legano da ormai un trentennio.
Io non ruberò neanche un minuto più del breve tempo concesso dal cerimoniale. Non ce ne è bisogno perché ancora una volta parlano i fatti.
E i fatti, anche nell’anno appena trascorso, hanno continuato a darci ragione in ogni sede, come ben sapete.
Per anni, una intera regione, la Basilicata, una regione non meno sana della maggior parte delle altre, è rimasta additata all’Italia come la terra del malaffare e nientedimeno che come la terra di una giustizia marcia, nientedimeno che come esempio di una giustizia addomesticata ad uso di comitati di affari, di cabine di regia, di oscure consorterie, di “consonanze”, di cupole e altre fantasie di tal genere, tutto questo grazie anche a una porzione di giornalismo manifestamente tendenzioso che non cerca la verità.
Per anni (grazie a una combinazione massmediatico-giudiziaria) uomini politici, magistrati, dirigenti delle Forze dell’Ordine e alte cariche istituzionali di questo Distretto sono rimasti legati alla colonna infame di una ostinata vis accusatoria che ha distrutto reputazioni e ha rovinato amicizie, famiglie e carriere, una ostinata vis accusatoria che la cultura della giurisdizione, ripeto, la cultura della giurisdizione, sta spazzando via inesorabilmente lasciandone il peso su coloro che hanno causato questo terremoto, lasciandone il peso su chi nell’ombra ne ha mosso i fili e su chi era intenzionato a dare credito a costoro e non ci è riuscito solo perché è stato reso inoffensivo da anticorpi istituzionali e soprattutto dalla buona giustizia che, giorno per giorno, ha trionfato e sta trionfando sulla cattiva giustizia.
Ecco è questa la ulteriore novità che ha contrassegnato l’anno appena trascorso: una vittoria.
Hanno vinto le Istituzioni, hanno vinto quegli anticorpi nei quali da cinque anni vi ho sempre detto di avere fiducia.
Questa è la novità: una esemplare dimostrazione di cultura della giurisdizione che ha fatto giustizia di illusorie spinte giustizialiste fondate sulle fantasie di taluni che noi tutti qui saremmo anche disposti a perdonare se fossimo sicuri che costoro sono capaci di autocritica e, aggiungerei, di rimorso.
Noi vogliamo e dobbiamo guardare avanti.
Però non parlare di questo, oggi, far finta che qui, da noi, in questa nostra regione, non è accaduto niente significherebbe deludere le attese dei lucani perbene e di tutti gli operatori di giustizia seri e onesti di questo nostro distretto lucano.
Distretto ancora oggi marchiato negativamente, agli occhi degli italiani, perché la stampa e le televisioni, che prima sbattevano i mostri in prima pagina e li “martellavano” tutti i giorni, dopo, quando via via è stata sempre più fatta chiarezza, non si sono mostrate altrettanto interessate perché, quando i palloni si sgonfiano, la cosa non fa più notizia e resta solo la utile fama di coloro che li hanno gonfiati e che giorno per giorno ne hanno raccolto e ne raccolgono frutti.
Frutti degni del campo del vasaio, direbbe l’evangelista Matteo. Il presidente Ferrara parla di moneta della notorietà conquistata con la toga. Si, presidente Ferrara, non è quello il nostro modello di magistrato.
L’anno appena trascorso ci ha fornito la dimostrazione della bontà di un valore prezioso per la libertà dei cittadini, un valore prezioso che va sotto il nome di cultura della giurisdizione alla quale ogni pubblico ministero dovrebbe sempre improntare la sua azione (e naturalmente il giudice, che non si deve appiattire sugli accanimenti accusatori del pubblico ministero).
Un valore che ho costantemente rammentato ai colleghi requirenti, purtroppo non sempre con successo.
Un valore che spesso è stato stravolto da esaltazione inquisitoria o da pregiudizio ideologico o da protagonismo vanesio e desiderio di visibilità che non si addicono alla serietà della toga.
Cultura della giurisdizione significa che il pubblico ministero deve pensare e agire da giudice prima ancora che da accusatore. E’ suo preciso dovere rispettare l’art. 358 del codice di rito.
In un ordinamento di carriere non separate il pubblico ministero deve essere “giudice dentro”.
Questo è il messaggio che ho trasmesso ogni giorno in questi, per me, indimenticabili anni.
Questo è il messaggio che lascio, ancora una volta, a voi tutti, cari colleghi delle Procure di questo distretto.
L’anno appena trascorso ha confermato che chi è stato un buon giudice è buon pubblico ministero e che il peggiore inquirente è colui al quale non interessa la verità, che non cerca la verità e segue unicamente una linea colpevolista.
L’anno appena trascorso ha dimostrato che il pubblico ministero munito di cultura della giurisdizione (quello che sente la sua funzione come servizio e non come potere) è una garanzia per la libertà dei cittadini tanto quanto, all’inverso, un pubblico ministero non guidato da cultura della giurisdizione costituisce un pericolo per la società, esposta a quella vera e propria iattura costituita dalla mancanza di equilibrio investigativo che ha fatto tante vittime.
Cicloni che lasciano scie di rovine, cicloni che la lentezza delle procedure rende ancora più devastanti quando, dopo anni di angustie e di sofferenze, una sentenza riconosce la ingiustizia e la avventatezza di catture, di perquisizioni, di intercettazioni; quando, dopo anni di sofferenze, una sentenza riconosce la ingiustizia di quegli effetti collaterali costituiti da sospensioni dalle funzioni, da sanzioni disciplinari e da danni irreparabili di immagine che, nel frattempo, ti portano via un pezzo di vita istituzionale, politica, sociale e perfino familiare e che neppure il passare degli anni potrà mai completamente sanare.
Non sto parlando dell’errore giudiziario ma di qualcosa di molto diverso, di qualcosa che viene perseguito spesso con inutile accanimento investigativo e spreco di risorse.
Contro questi pericoli io mi sono sempre battuto e voi lo sapete bene.
Chiudo qui.
Solo un minuto ancora.
Per parlare di noi. Di me e di voi.
Per unire (simbolicamente, in quanto momenti inseparabili della stessa funzione) tutti voi, Avvocati e Magistrati di questo Distretto, nel momento di questa mia ultima occasione inaugurale, in un solo unico cordialissimo saluto, in un solo unico affettuoso abbraccio.
Solo un minuto ancora.
Per dire grazie a voi e a quanti oggi ci hanno onorato con la loro presenza.
Per dire grazie ai lucani tutti, a questa terra bella e affascinante, all’indimenticabile profilo delle sue colline e a quel mutare dei loro colori secondo le stagioni, per dire grazie a questa terra amica dove ho molto dato e molto di più avuto; dove ho rispettato e sono stato rispettato; dove ho voluto bene e sono stato ricambiato; dove ho vissuto (e voi con me) momenti talmente fuori dell’ordinario (chiamiamoli così) che, per me, di straordinario, non può esserci più niente.
Per dire grazie al mio Ufficio, che è stato la mia famiglia in terra lucana.
Per dire un grazie speciale a quei colleghi che mi sono stati vicinissimi in momenti terribili e tuttavia esaltanti, a quei colleghi che hanno condiviso con me i rischi della mia scelta tra l’ignavia del quieto vivere e l’imperativo etico quale valore primario e unico ispiratore della mia annosa funzione di procuratore generale.
Ad essi dico: è stato un tempo degno di essere vissuto.
E a chi disse di essere orgoglioso di lavorare al mio fianco oggi dico che l’onore è stato mio, che la nostra coerenza è vincente, che lasciamo dietro di noi profumo di fresco e di pulito.
Confesso che mi dispiace lasciarvi ma “devo” andare, ripeto “devo” e perciò voglio salutarvi con le parole di Gibran, del profeta in piedi sul ponte della nave pronta a prendere il mare nel momento dell’addio: “vi lascio per ordine del vento. Io non ho la sua premura. Eppure devo andare”.
Niente e nessuno è riuscito a dividerci.
Conservatemi un posticino nel vostro cuore e nei vostri ricordi

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