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4 minuti per la lettura

di ROBERTO ROSSI*
Lo abbiamo detto, continuiamo a dirlo: che in questo Paese a far bene il proprio lavoro si rischia la vita. Che per una strana alchimia, è incredibilmente facile e frequente minacciare un giornalista, ma è terribilmente difficile provvedere seriamente alla protezione sua e della sua famiglia. E tutto questo è avvilente, e mortificante.
Mortificante non comprendere che tutelare un giornalista minacciato di morte deve essere automatico, come attivare anticorpi a difesa della democrazia. Di queste cose nemmeno si parla, si continua a non volerne parlare. Dietro l’ufficialità delle dichiarazioni di solidarietà, spesso qualcuno insiste persino a storcere il muso, dice, magari sottovoce, che l’intimidazione, quello là, se l’è cercata. Che è alla disperata ricerca di visibilità, che alla fin fine non è così grave ciò che gli accade. Si permette così a chi usa la violenza di continuare a farlo impunemente. È umiliante alzare la cornetta del telefono e sentire un caro amico, un leone di razza, un valoroso giornalista come Michele Albanese, da anni il punto di riferimento per le cronache locali e nazionali che riguardano la Piana di Gioia Tauro, che ti dice: «questa volta ce l’hanno fatta a spaventarmi, a mettere paura a me e alla mia famiglia». è umiliante, soprattutto per lui, che il suo lavoro debba mettere in pericolo i suoi affetti. Quella arrivata ieri per lettera alla redazione centrale del “Quotidiano della Calabria”, non è la prima minaccia subita da Michele, ma di sicuro è una delle più gravi per il contesto nella quale si inserisce, per i giorni di estremo allarme che sta vivendo la Calabria. Per la bomba di Reggio, per i fatti di Rosarno che Albanese ha raccontato senza risparmiarsi, e per i quali si è speso come sempre nell’offrirne lettura a uso e consumo di inviati piovuti giù dal Nord per mezza settimana. Ha cominciato nei primi anni Ottanta, Michele, con una mano scriveva di omicidi e sequestri di persona, con l’altra issava cartelli durante le manifestazioni per l’applicazione della legge La Torre in Calabria. Il giornalismo per lui è uno strumento di emancipazione della società, «a questo deve servire». Lotta da trent’anni in un territorio cha da oltre cento vive sotto il giogo delle stesse famiglie di mafia, Piromalli, Molè, Pesce, Bellocco, Crea, Rugolo, Mammoliti. Conosce a menadito gli interessi mafiosi che girano intorno al più grande hub del Mediterraneo; mastica amaro tutti i giorni il tradimento delle aspirazioni economiche e democratiche di un intero popolo. Vive e lavora, guardato a vista e male dai mammasantissima che passeggiano come squali sotto il suo ufficio di corrispondenza. Lavora bene e vive male. Come male continua a vivere Nello Rega, inviato del Televideo Rai, oggetto di un pressing minatorio senza sosta. Almeno tre episodi gravi hanno riguardato lui e sua madre da quando è stato dato alle stampe un suo libro che racconta una storia d’amore vissuta con una donna islamica, un amore difficile, finito da un giorno all’altro, forse perché a lei è stato impedito di frequentare un uomo non musulmano. Lettere contenenti proiettili, la testa mozzata di un agnello. Non c’entra la mafia, c’entra la violenza issata sui muri delle incomprensioni e dell’ignoranza, c’entra il terrorismo di matrice sciita. Continua a gridarla la sua paura, Nello. Continua a non sentirsi sicuro: «Mi proteggono a metà. Così è inutile. è anche uno spreco di soldi pubblici». Non è un Paese normale il Paese dove un senatore della Repubblica, Felice Belisario dell’Idv, per chiedere al ministro dell’Interno maggiore protezione per Rega, debba spingersi a dire: «Se Rega fosse risultato un mitomane o uno squilibrato sarebbe indagato. Invece non lo è. Da tre mesi sollecito Maroni a intervenire. Lettere, interrogazioni parlamentari, richieste di incontro. Nessuna risposta. Un silenzio deplorevole». Belisario, la Fnsi, Ossigeno per l’informazione, tante le richieste. Ma dal Palazzo ancora non si riesce ad avere una giusta misura di protezione per un uomo in pericolo di vita. Una vita abitata a metà, come quella vissuta da Giulio Cavalli, che rischia da un paio d’anni perché da attore ha fatto uno spettacolo irriverente verso i capimafia, e da qualche settimana rischia ancora di più perché, con quella storia, si è candidato alle regionali. A Varese! Non in Calabria, non in Sicilia, o in Campania. Ma in Lombardia. Dove le minacce più gravi per lui non sono le telefonate anonime o i gesti intimidatori, ma la colpevole indifferenza per la questione mafiosa di una vasta parte della società e della classe dirigente che amministra. Perché la mafia a Milano non c’è. Ché la Lombardia non è affetta da questo cancro. Lo ha detto perfino un prefetto nei giorni scorsi. Dicevano lo stesso a Ragusa, nel 1972, quando fu ucciso Giovanni Spampinato, che invece non la pensava proprio così. Dicevano lo stesso a Barcellona, in provincia di Messina, quando fu assassinato Beppe Alfano. Lo urlavano a Catania quando cinque colpi di pistola raggiunsero la nuca di Pippo Fava. E continuarono a dirlo anche dopo. A fare schermo a una forma di criminalità che resta inconfondibile, anche quando si camuffa di qualcos’altro.

*Ossigeno per l’informazione

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