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di LUIGI M. LOMBARDI SATRIANI
Il territorio di Haiti, con le sue decine e decine di migliaia di vittime, con i suoi centri distrutti, con l’immane violenza con la quale si è abbattuto portando devastazione e morte, ha catturato la nostra attenzione e la nostra dolente solidarietà. Si impongono, a mio avviso, alcune considerazioni. Questo terremoto, come tutti gli altri che con tragica frequenza colpiscono i diversi Paesi, non è un evento naturale, contro il quale nessuna azione è possibile, nessuna prevenzione e cautela è pensabile. I sismi si possono ragionevolmente prevedere, i loro effetti possono essere considerevolmente attenuati ponendo in essere una serie di accorgimenti e cautele nelle costruzioni; valga, al riguardo l’esempio del Giappone, di cui dovremmo tenere il massimo conto specie nella nostra Calabria, che ha lo storico “privilegio” di una tragica frequenza di terremoti. Del resto, sappiamo dallo studio approfondito degli intervalli temporanei tra l’uno e l’altro sisma che in questo torno di anni vi è una forte probabilità che un terremoto colpisca l’Italia Meridionale; eppure continuiamo disinvoltamente a non tutelare, per quanto possibile, il nostro territorio rispetto a tale pericolo come niente si fa da parte delle Autorità competenti per tutelarlo dal rischio frane, inondazioni, straripamento di fiumi e torrenti, nel cui alveo abbondano costruzioni abusive, come già più volte denunciato in questa rubrica. Tragico evento sociale, il terremoto ha distrutto i quartieri dei poveri, risparmiando la collina dove sorgono le ville dei ricchi che hanno potuto così continuare la loro vita sostanzialmente indisturbata. I terremoti riconfermano così il loro costitutivo carattere di tragici evidenziatori socio-culturali; essi, cioè, fanno emergere con assoluta evidenza le condizioni di assoluta miseria nelle quali si consumano le esistenze di migliaia e migliaia di persone verso le quali, ma spesso post mortem, scatta la gara internazionale di solidarietà. Sarebbe bene, forse, che la solidarietà, comunque apprezzabile, non sia a fasi alterne, ma tratto costante della nostra vita associata. Nei giorni scorsi abbiamo visto le modalità con le quali i sopravvissuti si sono rapportati ai loro morti, con canti e danze tradizionali, secondo l’articolata ritualità voodoo . Tale ritualità è stata a lungo oggetto della sistematica lotta da parte della Chiesa cattolica, che etichettandola come insieme di superstizioni si è impegnata in una profonda opera di cristianizzazione. Operazione tenace, ma del tutto illusoria e comunque superficiale: il terremoto ha fatto riemergere in primo piano assolutamente la persistenza della religione voodoo, né potrebbe essere diversamente, posto che nei momenti decisivi dell’esistenza individuale e collettiva, come quando ci si confronta con la morte dei propri cari e con la possibilità della nostra stessa morte, è nella propria religione che si cerca un ancoraggio della nostra esistenza, la possibilità di una strategia della speranza. Comprendiamo allora perché l’Onu abbia diramato una circolare invitando i propri funzionari sull’isola ad agevolare al massimo i funerali voodoo ritenuti più adeguati alle profonde esigenze dei nativi. Comprendiamo altresì come i santoni voodoo abbiano protestato contro l’accatastamento dei cadaveri in fosse comuni, dettato dalle esigenze, pur comprensibili, di scongiurare in maniera prioritaria possibili epidemie. La religione voodoo, prevalente ad Haiti, costituisce una trasformazione di quella voodun praticata nell’Africa occidentale. Essa è stata indagata da una densa letteratura scientifica, per la quale sia qui sufficiente il richiamo al capolavoro di Alfred Metraux. Anche i rituali di possessione e i fenomeni di trance presenti in Brasile e a Cuba, quali il macumba, il candonble, la santaria, sono state a lungo indagati dagli etnologi e anche qui sia sufficiente il richiamo ai suggestivi lavori di Roger Bastide. I canti e le danze voodoo rinviano a diversi ordini di motivi. Anzitutto, occorrere non offendere i “loa”, lo spirito degli antenati, lo spezzare il filo tra i vivi e i morti può evocare dal mondo invisibile la forza terribile del Maligno, di “Petro”. I canti e le danze accompagnano i morti nel loro transito e servono anche a difendersi dai morti. Questi si aggrappano ai viventi, tendono a occuparli, sottraendo progressivamente le loro forze e potenziando il loro deperimento. Metraux si sofferma, tra gli altri, sul caso di Antonio, un robusto scaricatore, che invaso dai morti andava sempre più deperendo finché, liberato secondo le previste modalità rituali non riacquistò totalmente le forze potendo così riprendere agevolmente il suo lavoro. Non occorre però immaginare il cattolicesimo da un lato e il Voodu dall’altro quale due blocchi monolitici contrapposti e senza reciproche influenze. Come si è avuta storicamente una plasmazione o tentativi di plasmazione cristiana di tratti voodu, abbiamo una sistematica plasmazione voodu di figure e tratti del cattolicesimo e di altre forme della cultura Occidentale. Figure di santi, “Bon Dieu”divenuto “Bondyè”, canti e canzonette occidentali entrano nell’immaginario e nella prassi rituale voodoo riorganizzati secondo il ritmo e lo spirito propri di questa religione. Si intende, dire, che vi è una continua intersecazione tra questi universi culturali e che oggi più che mai non esistono culture chiuse in un’improbabile purezza primigenia, ma abbiamo sempre e comunque innumerevoli forme di meticciato culturale. I funerali haitiani ci invitano a non compiere nei confronti dei nativi un’ulteriore violenza considerando la loro religione, le loro credenze, le loro pratiche forme “superstiziose”, “primitive” di una cultura da considerare inferiore soltanto perché diversa dalla nostra. Ritrovare nonostante la differenza la comune umanità può essere per noi esercizio utile che arricchisce la nostra sensibilità, la nostra comprensione, sottraendoci al nostro arrogante etnocentrismo.
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