X
<
>

Share
8 minuti per la lettura

di CATALDO PERRI*
Una nazione, un popolo attaccato militarmente non ha solo il diritto ma ha il dovere di difendersi con le fatidiche regole di ingaggio commisurate all’entità ed al grado di nocumento dell’attacco stesso. Se la Libia , la Tunisia o altra nazione che si affaccia sul Mediterraneo, avesse fatto affondare deliberatamente nel nostro mare navi contenenti veleni radioattivi pericolosi quanto e più di decine di bombe atomiche sganciate su Hiroshima, la dichiarazione di guerra e la risposta militare, nella sua lucida e scellerata follia, sarebbe stata la risposta più coerente, avallata e condivisa senza remore anche dalle Nazioni unite.
La Calabria come l’Iraq, come l’Afghanistan, come l’Eritrea è teatro di guerra da decenni. La ‘ndrangheta ha dichiarato guerra alla Calabria, fino a oggi ancora regione italiana, quando uccide un bambino in un campetto di calcio a Crotone, quando utilizza materiale radioattivo per costruire le scuole dove i nostri e i loro figli dovrebbero affacciarsi al sapere e alla “vita”, quando parassita e vile chiede il pizzo agli onesti lavoratori, quando vende il corpo di una donna al macello di un marciapiede, quando costruisce manufatti abusivi in luoghi di grande pregio ambientale rovinando paesaggi e procurando danni irreversibili, mortificando il bello in un tripudio di violenta bruttezza anticamera di miseria morale ed economica. Sono nato in una regione dove le parole mafia e ’ndrangheta le abbiamo sentite sussurrate sottovoce sin dalla nostra infanzia, pronunciate dagli adulti con un ghigno di paura, di frustrazione e di repulsione, hanno accompagnato i nostri momenti di crescita fino a maturare la convinzione che tale condizione di paura fosse qualcosa di naturale e ineluttabile nel corpo calabrese. I primi anni ’80, dopo la laurea, ho scelto di tornare a lavorare e vivere nella mia Cariati (Cs), erano anni di grandi motivazioni ideologiche, tornare a Sud e dare una mano era un imperativo e un obbligo morale verso la terra dei padri. A distanza di tanti anni la parola mafia e ’ndrangheta purtroppo ancora viene pronunciata sottotono a un volume impercettibile per le nostre orecchie ma assordante per le nostre coscienze. Ricordo la fiaccolata per Falcone e Borsellino, i convegni, la proposta del marchio legalità. A cosa sono servite le tante, coraggiose iniziative per la legalità promosse da tante associazioni e da tanti uomini di buona volontà, dal volontariato, dagli uomini di Chiesa, da amministratori coraggiosi? La mafia è lì a condizionare pubbliche amministrazioni, a fare traffici di droga, ad ammazzare una donna per riscattare un malriposto senso dell’onore, è lì a farci svegliare una mattina con la notizia che siamo accerchiati da scorie radioattive che ci hanno avvelenato il mare della nostra memoria e della nostra speranza, è nelle nostre piazzette con i suoi luogotenenti tatuati da santi e volti di Cristo che dovrebbero proteggerli mentre commettono i delitti più efferati, con le catene d’oro tamarre e pacchiane, con le loro auto che sgommano, con la chimica e la fisica del loro comunicare (il timbro di voce, le pause, il gesticolare) esiste tutto un rituale di gesti, toni, modi che il mafioso comunica scientificamente, quasi lombrosanamente. Il manuale del perfetto mafioso prevede fra le priorità l’essere riconosciuto tale dai propri interlocutori, altrimenti la sua azione intimidatoria non risulta efficace. L’unico maledetto primato del Sud è il fatturato delle mafie, l’unico brand di disgustoso successo è tutto questo marciume, questa lava di inciviltà che stiamo esportando con successo prima in Italia e poi nel mondo (vedi Duisburg). C’è un’altra Calabria è vero, ma se la parte minoritaria e ’ndranghetista, così nefasta, non viene fermata si parlerà in eterno di un’altra. ma non della Calabria. Se nel 2009 la ‘ndrangheta cresce, si espande, moltiplica i suoi affari in maniera proporzionale al dolore che provoca alle sue vittime, se tanti anni di lotta, di energie fino al sacrificio estremo di eroici magistrati e di troppi rappresentanti delle forze dell’ordine, se questo sistema legislativo e questo metodo di contrasto ha sortito tali risultati, si impone una riflessione seria, scevra da ideologismi frustranti e fallimentari. E’ vero molti dei capi sono in carcere col 41 bis, ma la rete, il sistema strutturale mafioso è integro con le sue miriadi di ramificazioni e connivenze. Per formazione politica vengo dalle sezioni del vecchio Pci, allevato a perequazione sociale e garantismo. Abbiamo appreso sin dalla lotta al terrorismo che alcune garanzie sociali e giudiziarie, in alcuni momenti storici, quando c’è in ballo la sopravvivenza della democrazia e della civiltà di un popolo, si possono e si devono riconsiderare. Tutte le iniziative culturali di educazione alle regole vanno bene, la nostra amministrazione ha destinato progetti culturali e destinerà una parte delle programmazioni del nostro nuovo teatro a opere a tema legalità. Queste iniziative in collaborazione col mondo della scuola dovrebbero formare gli uomini del futuro, daranno i frutti da qui a 20 anni perché educative e formative, ma ora?! Come si combatte questo mostro? Un mafioso incallito che spara a un bambino non torna certamente indietro per un convegno o una campagna per la legalità. A mio modesto avviso l’elemento debole della lotta alla mafia è che il confronto è fra due mondi antitetici, fra due linguaggi diversi, da una parte la legge regolata dal Parlamento di uno Stato democratico e di diritto, dall’altra parte regole, leggi e comportamenti arcaici che affondano tutta la loro efficacia su un solo semplice terribile principio, la paura e la intimidazione fisica, la supremazia della bestia della giungla. Anche nelle pieghe del garantismo si alimenta la linfa vitale della malavita organizzata. Ho visto tanti miei coetanei deboli socialmente, appartenenti a famiglie povere e con scarsa cultura, senza lavoro, che sono entrati nei circuiti mafiosi proprio per diventare qualcuno, per un “riscatto sociale” diventare vittime e carnefici della loro scelta. Il senso di impunità che ostentano i boss, che possono schiaffeggiare in piazza un onesto padre di famiglia, la loro ostentazione d’onnipotenza diventa un modello per nuovi manovali di morte negli anelli sociali deboli senza argini etico-culturali. La mafia, la ’ndrangheta, la camorra, per essere vincenti ed efficaci devono portare a termine azioni malavitose cruenti, incendiare locali, punire chi non paga il pizzo, uccidere. Azioni sporche che un boss o un colletto bianco non farà mai personalmente, delegherà per queste azioni i giovani sfortunati arruolati come fanti di morte. Senza la capacità di fuoco, senza le intimidazioni fisiche sul terreno portate avanti dai manovali, i boss non avrebbero più potere. Bisogna intervenire sui boss codardi cercando di stanarli nei paradisi fiscali ma anche e soprattutto su quell’esercito di manovalanza del terrore visibile nel nostro quotidiano, nelle nostre piazze. Non ho certezze, né ricette certe, ma voglio lanciare una provocazione, proviamo a combattere i mafiosi non solo con la cultura in senso lato, con i convegni, recuperando il degrado sociale, creando occasioni di lavoro ma in estrema ratio anche con la loro cultura, quella mafiosa visto che è l’unica che riconoscono ed è probabilmente l’unica che potrebbe combatterli efficacemente. Tutti i manovali e i boss circolanti nelle nostre piazze che fanno di tutto per farsi riconoscere con i loro rituali, conosciuti e riconosciuti dalla gente comune e a maggior ragione dalle forze dell’ordine. Dovrebbero essere svegliati ogni notte nei loro letti onnipotenti da un nucleo di poliziotti carabinieri parà della folgore . buttati dal letto, interrogati, controllati, spalle al muro fino a fargli sentire quella paura fisica di cui loro sono esemplari maestri. Loro e i loro familiari, perché forse alla decima notte di insonnia e di paura, secondo la loro legge e secondo le loro arcaiche regole potrebbero capire che se lo Stato democratico vuole può essere più forte anche sul loro piano di confronto. Dopo 100 notti di risvegli improvvisi e terrorizzanti capiranno forse che non vale la pena perseverare nella carriera ndranghetista. Ogni notte e ogni giorno, controllati spalle a terra nelle piazzette, durante l’esercizio quotidiano del loro vile potere, di fronte alla gente comune, per disvelarne la paura, la loro viltà, minando così l’immagine collettiva della loro forza, del loro “rispetto”. Fino a quando non baratteranno la strada della morte per quella delle regole e della vita civile. Può una sparuta minoranza condizionare la vita e il destino di un popolo e dei nostri figli? E’ democratico tutto questo? Appartiene alla sfera delle nazioni civili la convivenza fisiologica con la ’ndrangheta? Si dirà ma così sarebbe una giungla, la morte delle regole e della democrazia. Ma è garantista uno Stato che tollera la disperazione di tanti cittadini onesti, di imprenditori che hanno pensato di investire per lo sviluppo della loro terra? E’ garantista permettere loro di non dormire più la notte perché sanno che prima o poi verranno a chiedere il pizzo a distruggere i loro mezzi, a bruciare i loro capannoni, a sparare ai vetri di casa o peggio essere bersaglio dei loro proiettili? E’ garantista uno Stato che non riesce a tutelare e salvaguardare il territorio nazionale e il suo mare dai veleni mortali delle ecomafie? E’ garantista uno Stato che permette di costruire le scuole con scorie tossiche, che tollera la deportazione forzata di tanti giovani, emigrati per mafia, che vanno a cercare lavoro altrove anche per questo tanfo di morte e di illegalità? Purtroppo i morti di ’ndrangheta non sono solo quei poveri cristi caduti sotto i colpi di mitra, sono molti di più, saremo noi malati di tumore per le scorie radioattive disseminate nella nostra bellissima terra e nel nostro innocente e vergine mare, le vittime di mafia sono i nostri figli che hanno già la visione di un futuro sconsolante. Si sforzino tutte le istituzioni sane a trovare un rimedio, ci vorrebbe un G20 non solo per l’economia o per il clima, credo che siano maturi i tempi di un G20 sulle mafie. Che senso ha parlare di clima e di ambiente, sancire delle norme condivise antinquinamento, se non si va a perseguire e contrastare anche le ecomafie, andrebbe programmata una lotta globale ai terroristi mafiosi che ogni giorno celebrano un 11 settembre. Andiamo a “esportare la democrazia” in tante nazioni lontane, remote e ricche di petrolio ma quando sarà il tempo di importare la democrazia nelle terre di mafia? In queste terre si respira ancora il profumo d’origano, del mirtillo, il malinconico profumo di salsedine, ma non quello della democrazia e della libertà.

*vicesindaco Comune di Cariati

Share

COPYRIGHT
Il Quotidiano del Sud © - RIPRODUZIONE RISERVATA

Share
Share
EDICOLA DIGITALE