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di LUIGI TASSONI
Non sembra vero, ma si parla nuovamente del dialetto. Nella calura dei mesi scorsi lo ha fatto, come ormai tutti sanno, nientedimeno che Umberto Bossi, ipotizzando che il dialetto si potrebbe insegnare a scuola, come fa sua moglie, abile nell’associarlo alla disciplina musicale. L’argomento è tutt’altro che marginale, e lo dimostrano autorevoli interventi di esperti e studiosi, come quello di Lombardi Satriani su questo giornale. Prima di tutto dovremmo chiederci: se lo immagina Bossi di avere innescato uno straordinario effetto boomerang che finirà dritto sul naso delle pretese leghiste di secessione? Eh sì, perché nella cultura italiana e nella formazione familiare in ogni regione i dialetti o un loro diretto riflesso occupano un ruolo notevolissimo, malgrado siano stati vilipesi, maltrattati, svenduti per oltre un secolo di scolarizzazione più o meno vigile. E ho detto i dialetti, proprio al plurale perché, per quanto ci siano linee familiari e aree ottimamente marcate dalla dialettologia italiana, è chiaro a tutti che ci troviamo nel regno della molteplicità, che non sempre e non dappertutto potrebbe garantire piena comprensibilità e comunicazione bilaterale fra parlanti dialettofoni dell’intero paese. A dispetto di quanto pensavano i puristi della lingua, questo non è un difetto ma un pregio straordinario: conoscere il proprio dialetto e parlarlo coscientemente non costituisce un passo indietro sul piano della comunicazione moderna che, si sa, ha sempre più bisogno del riferimento ad una lingua veicolare internazionale che molto spesso è l’inglese. Al contrario ogni area dialettale dà al suo parlante un codice di appartenenza, ma anche un codice di differenza, prima di tutto rispetto agli altri dialetti, anche a quelli vicinissimi. Ovvero un insieme di differenze, che non può essere ignorato soprattutto a scuola. In ogni civiltà il confronto significa rispetto per la differenza. La lingua italiana è ormai da molto tempo una lingua veicolare naturalmente all’interno del paese (essendo la lingua nazionale) ed eccezionalmente in numerose realtà fuori di esso. Ed è appunto una lingua che comunque continua ad ossigenarsi attraverso i dialetti, questa complessa realtà di culture che ad essa si intreccia. Checché se ne dica, i dialetti esistono, sebbene oggi ad un livello meno radicato e spesso più superficiale, che so, rispetto a 50 anni fa; e non è detto che siano autonomi o sussiegosi nei confronti della grande e affascinante lingua madre. Il fatto è che, come per ogni cultura sopravvissuta, quella dialettale affida la propria identità più certa e creativa alla memoria di testi popolari (fiabe, proverbi, ballate, canzoni, eccetera), e in modo diffusissimo sul territorio anche alla poesia dialettale contemporanea. Una poesia che è riconosciuta serenamente a livello internazionale in edizioni e traduzioni che l’hanno fatta circolare come codice creativo con la sua grammatica (da non ignorare). Lo dimostrano storicamente i testi dialettali di grandi poeti italiani, da Andrea Zanzotto a Milo De Angelis, e in modo più vulgato oggi i tanti meeting che si rincorrono nel nostro paese, come quel seminario voluto a Trieste nel 2006 dalla Fondazione Biagio Marin (il famoso poeta di Grado) e intitolato significativamente Il dialetto come lingua della poesia. Non è solo perché la Regione Friuli Venezia Giulia ha una sua interessante legge “a tutela” dei dialetti nelle scuole, ma perché un confine è sempre molto interessato alla convivenza fra insiemi linguistici e alla multiculturalità. Se Bossi avesse fatto una capatina a Trieste, avrebbe scoperto un grande poeta lumbard, Franco Loi, e un altro grande, un meridionale, un meraviglioso terùn calabrese, Achille Curcio. Nella loro poesia, tradotta anche all’estero, nella voce di questi maestri ottantenni di oggi, non avrebbe trovato però il segno della differenziazione come indifferenza (il lumbard a noi, a voi il vostro calabrese), ma al contrario il senso della comunicazione, del proprio esserci, intero culturalmente, e il desiderio di parlare all’altro. Ma insisto, sa già Bossi che non esiste il dialetto lumbard così come non esiste il calabrese? Al loro interno si dà vita ancora a una pluralità, una complessità, una moltitudine, che può comunque avvicinare i codici linguistici, scoprendosi addirittura come universo creativo per un parlante estraneo ma non straniero. Nell’Università di Pécs, in Ungheria, dove da 15 anni si insegna dialettologia e letteratura dialettale al Dipartimento di Italianistica, questo lo sappiamo bene. Dunque, i dialetti: che meravigliosa chance anche per la nostra letteratura! Imparare a studiarli, a scriverli, a leggerli, significherebbe capirsi un po’ meglio, essere più vicini, far sopravvivere la lingua italiana con l’insieme dei suoi tanti codici comunicativi e creativi. Per ora, comunque, non ditelo a Bossi: potrebbe averne paura.
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