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di ALJOSA VOLCIC*
L’università italiana ha un modo tutto suo di rispondere a quella che impropriamente definisce “la richiesta del territorio”. Nella provincia di Napoli ci sono più architetti iscritti all’albo di quanti ce ne siano in tutto il Regno Unito. Sbagliamo noi o sbagliano gli inglesi? I laureati italiani trovano un impiego adeguato al titolo o sono sottooccupati o addirittura disoccupati? Una recente notizia di stampa ha riferito che tra quattro posteggiatori abusivi arrestati a Roma uno era un architetto. E’ già da un po’ che si parla con insistenza della creazione di una facoltà di medicina presso l’Università della Calabria. E si tira in ballo, appunto, “la richiesta del territorio”. E’ ben vero che, a livello nazionale, ci sono circa otto richieste per ogni posto disponibile a medicina e che per odontoiatria il rapporto è addirittura di quaranta a uno. Cosenza non farà certo eccezione. Ma questo è un buon motivo per aprire una nuova facoltà? Sulla sanità calabrese se ne sentono tante, ma nessuno ha mai avuto il coraggio di parlare di carenze di personale. Ma allora questi eventuali nuovi laureati li manderemo a fare compagnia a tutti quelli che già ora sperimentano sulla propria pelle “quanto sa di sale lo pane altrui”? Poi ci sono i costi. Il “costo zero” è una favola. Con i diciotto docenti attualmente presenti presso l’Università della Calabria su cui il professor Andò scrive di poter contare (merita ricordare che la valutazione del Civri qualche anno fa ha posto in coda alla classifica nazionale l’area disciplinare affine a cui, in buona parte, questi 18 docenti afferiscono) si può mettere in piedi un primo anno, ma poi ci sono gli altri cinque anni e tutte le specializzazioni. D’altra parte i concorsi universitari sono bloccati e il governo sembra intenzionato a far subire all’università una drastica cura dimagrante. Un’università delle dimensioni di Unical dovrebbe ragionevolmente, a regime, avere a medicina tra i 250 e i 300 docenti, dei quali un po’ meno della metà a contratto, selezionati tra le “eccellenze” nelle strutture ospedaliere locali. Quindi risorse enormi verrebbero fagocitate dalla nuova facoltà a discapito di quelle già esistenti. Inoltre, poiché i medici universitari ricevono per legge, a fronte di attività a favore del Servizio sanitario nazionale, un compenso dalla Regione, altre risorse considerevoli verrebbero a pesare sul bilancio regionale, già in grave difficoltà con la sanità, sulla quale incombe il commissariamento. Ma poi dove si troveranno le punte di eccellenza esterne e in quale ambiente si specializzeranno i laureati? In quali strutture ospedaliere verranno sistemate le cliniche universitarie? In quelle che hanno avuto, rispetto a tutte le regioni italiane, il peggiore giudizio a seguito dell’ispezione dei Nasrdinata dal ministro Livia Turco nel gennaio 2007 e nelle quali si è concentrato un sesto di tutte le irregolarità segnalate a livello nazionale? E dove la stampa riporta inchieste riguardanti infermieri privi di qualifica e medici privi di specializzazione? In quel sistema sanitario che a parlarne male è come sparare sull’ambulanza? Naturalmente quelli che alle persone ragionevoli sembrano costi eccessivi (con scarse ricadute) possono apparire ad altri un’occasione ghiotta per gestire enormi risorse economiche e un numero spropositato di “posti”. Sarebbe importante che l’Università della Calabria pensasse un po’ meno alla propria crescita meramente numerica e desse invece un contributo a innescare una mobilità sociale di cui questa regione, e il Paese intero, ha tanto bisogno. Sarebbe allora ancora più vera la frase “Ripartiamo dal Sud per cambiare l’Italia” che è lo slogan di Ignazio Marino.
*Università della Calabria
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