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LA preghiera laica del mattino, come notoriamente Hegel definiva la lettura dei quotidiani, proponeva domenica 22 luglio, in prima pagina, su tutte le colonne di questo foglio, la lettera di Pier Paolo Pasolini ai calabresi, inedita e recuperata tra le carte del dottor Nicolini, ufficiale sanitario di Paola, da tempo scomparso.
La lettura del testo di Roberto Losso, cui si deve la proposta, chiarisce lucidamente come e perché la missiva pasoliniana sia stata recapitata al medico paolano, che lo aveva “provocato”, ma il termine è del tutto infelice, avendo avuto la ventura di conoscerlo e praticarlo come persona di assoluta distinzione comportamentale, ad una risposta motivata dai rilievi critici da lui mossi al reportage sulla Calabria, dal titolo: “La lunga striscia di sabbia”, pubblicata sul numero di “Successo” del settembre ’59.
La prima osservazione che vien fatto di formulare, mettendo da parte le emozioni suscitate dal “recupero” di un personaggio non comune, anche in virtù dell’immagine che correda l’articolo, è della scoperta della sua non comune “vis poetica”, di cui duole conoscere per l’occasione, oltre un componimento, solo pochi frammenti.
Ma andiamo al dunque, la serietà dei rilievi mossi allo scritto pasoliniano, garbati e privi degli abituali toni esagitati, retorici e rivendicativi, propri del meridionale che ritiene di essere stato offeso, spiegano il perché della lettera di risposta.
L’autore stesso, a ben vedere, lo ammette, non solo e non tanto quando attribuisce al Nicolini, uno sconosciuto medico di paese, doti di bontà e simpatia, desunte dal suo scritto, ma soprattutto quando entra nel merito delle notazioni critiche, a partire da quella, iniziale, tesa a recuperare benevolenza, in cui esalta il ruolo dei banditi che gli “sono molto simpatici” e per i quali ha “sempre tenuto sin da bambino, contro i poliziotti e i benpensanti”, riducendo tutto a un noto gioco infantile, la cui semplicità referenziale è appena riscattata dall’estensione della negatività ai benpensanti.
L’intento, correttivo del tiro, è ulteriormente scoperto quando si tenta di estendere la criminalizzazione “a tutto il Sud”, a parte la rapina a mano armata, per modesti furti “nelle cabine delle spiagge”, ribadendo, nel contempo, la sua estrema simpatia per gli autori dei misfatti.
Subito dopo, fortunatamente, il discorso diventa più serio travalicando la modestia degli episodi riferiti, con l’invito rivolto ai calabresi a non fare come gli struzzi, approdando all’autocritica.
Tema ricorrente, soprattutto nella letteratura di viaggio, quello del brigantaggio, nei confronti del quale si assumono gli stessi scontati, atemporali e acritici atteggiamenti, in contrasto con le esperienze effettivamente vissute.
L’inglese Brian Hill, che soggiornò brevemente in Calabria nel 1791, scrisse una relazione, pubblicata a Londra l’anno seguente, dominata dal tema ricorrente del banditismo, anche se di banditi non vide mai l’ombra. “Partimmo a piedi senza armi, affidandoci alla misericordia dei banditi calabresi, di cui avevamo sentito terribili racconti”, scrive in un punto, ma poi deve ammettere “che non tutti sono ladri e briganti in Calabria, infatti mentre attraversavamo una delle regioni più desolate, fummo richiamati indietro da un contadino che ci restituì un pesante cappotto caduto dalla carrozza”. Al momento della partenza, mettendo disinvoltamente da parte obiettività e verità ricade però nel luogo comune e nel sentito dire: “Stiamo ora lasciando le due calabrie, così famose per i disperati banditi che le popolano, e sicuramente la più selvaggia regione in tutta Europa”.
Il tutto, a proposito di Cutro, il paese dei banditi, “come si vede in certi western (ecco le donne dei banditi, ecco i figli dei banditi)”, dove “si sente che siamo fuori dalla legge o, se non dalla legge, dalla cultura del nostro mondo”, ma dove si raccolgono per strada due persone che, infine, salutano – scrive Pasolini – con “umanistica gentilezza”.
Il punto nodale del discorso è quello in cui, lamentando di avere determinato un equivoco, impersonalmente sostiene che: “non si tiene mai abbastanza conto del vostro ‘complesso di inferiorità’, della vostra psicologia patologica (…), della vostra collettiva angesi, o mania di persecuzione”.
Riconosce, a seguire, che “tutto ciò è storicamente e socialmente giustificato” e consiglia di non cercare consolazioni in un “passato idealizzato e definitivamente remoto: l’unico modo per consolarsi è lottare, e per lottare bisogna guardare in faccia la realtà”.
Autorizza, infine, il dottor Nicolini a dar pubblicità alla missiva, cosa che l’interessato non fece probabilmente nel rispetto della sua signorile riservatezza.
In chiusura, la vicenda mi conferma nel riconoscimento di un ruolo non secondario esercitato nella società calabrese, non solo del tempo, nella dimensione paesana, dai medici, che erano spesso anche uomini di cultura e di cui nessuno si è mai convenientemente occupato.
Leggevano, infatti, anche perché destinatari di pubblicazioni diverse; erano, non solo professionalmente informati; spesso dipingevano e scrivevano; influenzavano quanti erano impegnati nell’amministrazione della cosa pubblica; assistevano i pazienti non esclusivamente sul piano sanitario, eccezionalmente anche economico. Al ricordo del dottor Nicolini, associo quello dei suoi familiari, dei colleghi e degli studenti caratterizzati da insolita vivacità intellettuale, nel biennio in cui li ho frequentati, occupando la cattedra di Storia e Filosofia nel Liceo Scientifico locale.
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