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di DOMENICO CERSOSIMO*
E’ credenza diffusa nel nostro Paese che gli investimenti in opere pubbliche generano sviluppo economico e competitività territoriale. Una versione radicale di questa idea, in voga soprattutto negli ultimi tempi, è che solo attraverso la realizzazione di grandi infrastrutture è possibile attivare grandi processi di sviluppo. Il ragionamento sotteso alla credenza è schematicamente il seguente.
Le nuove infrastrutture riducono i costi di produzione e distribuzione delle merci; i costi più bassi consentono alle imprese di ridurre i prezzi dei loro prodotti; i prezzi più bassi dei beni accrescono la domanda; una domanda più elevata implica economie di scala; le economie di scala abbassano ulteriormente
i costi aziendali e così via lungo le connessioni virtuose smithiane della crescita economica. Elementare, Watson! Peccato però che il legame tra opere pubbliche e sviluppo economico sia molto meno lineare e meccanico di quanto comunemente si pensi. Molti studiosi hanno dimostrato che a livello macroeconomico
il link tra investimenti infrastrutturali e crescita è solo debolmente positivo e che gli impatti dipendono molto dalla tipologia delle opere e dallo stock infrastrutturale pregresso. È del tutto scontato infatti che in presenza di sistemi infrastrutturali evoluti i benefici economici attesi di nuovi investimenti
infrastrutturali siano alquanto limitati, a ragione dell’ormai modesta incidenza dei costi di trasporto sul valore totale delle merci.
Anche sul piano microeconomico gli effetti degli investimenti in opere pubbliche non sono scontati. Un sistema viario migliore, a esempio, se consente alle imprese di ridurre i costi dimagazzinoattraverso trasporti più frequenti con carichi ridotti, dall’altro però determina un aumento del traffico che rischia di annullare i risparmi di tempo connessi al miglioramento della rete. Tantomeno sono aprioristicamente certi gli impatti territoriali degli investimenti infrastrutturali. Nelle regioni poco accessibili le imprese sono relativamente al riparo dalla concorrenza extraregionale; diversamente, il miglioramento
dell’accessibilità comporta una maggiore penetrazione di produzioni esterne, che potrebbe determinare un peggioramento della struttura e delle performances dimercato delle imprese regionali. Non basta dunque stanziare nuove risorse e realizzare nuovi investimenti infrastrutturali per garantire lo sviluppo, senza disconoscere il ruolo che possono avere alcune grandi opere in determinati contesti per ridurre squilibri socio-territoriali e accelerare la crescita. Piuttosto, l’incertezza degli esiti finali richiederebbe più che nel passato
valutazioni approfondite sui singoli investimenti programmati, sulla loro coerenza di sistema, sul loro contributo effettivo a colmare deficit socio-economici, sugli effetti energetici e ambientali, l’opposto cioè del semplicistico approccio “shopping list” dell’esecutivo attuale. Oggi, nella tempesta della crisi del capitalismo reale, la ”febbre” per le grandi opere si presenta anche sotto le spoglie di manovra anticiclica a sostegno della domanda. Il Governo annuncia mastodontici piani di investimenti pubblici in chiave anticrisi incentrati su un elenco indistinto di grandi infrastrutture, sebbene i fondi stanziati e disponibili sono in grado di coprire soltanto una frazione limitata della lista di opere. Il Governo dimentica però che le grandi opere
avranno effetti economici tangibili soltanto tra molti anni, quando fortunatamente
la crisi attuale sarà solo un pallido ricordo. In Italia, per progettare e appaltare una grande opera pubblica, convenzionalmente sopra i 50milioni di euro
di investimento, sono mediamente necessari 50 mesi, mentre per la realizzazione passano ben altri 65 mesi, per un totale di oltre 10 anni e mezzo. Per realizzare un’opera pubblica di medie dimensioni, tra i 10 e i 50 milioni di euro, sono necessari in media all’incirca 7 anni, di cui 40 mesi soltanto per progettarla e appaltarla. Si tratta di tempi biblici rispetto alle esigenze immediate di
sostegno della domanda effettiva. Solo le opere di piccola taglia, inferiori a 1 milione di euro, vengono progettate, appaltate e completate mediamente in 2 anni, ossia intempi compatibili con il ciclo della crisi economica. Se si vogliono conseguire reali effetti antirecessivi bisogna dunque puntare sulle piccole
infrastrutture e abbandonare l’illusione delle grandi opere pubbliche come leva per fuoriuscire dal trend recessivo. Per contrastare la crisi serve più abbattere le barriere architettoniche nelle nostre scuole piuttosto che costruire il Ponte sullo Stretto. Le barriere possono essere eliminate in modo rapido, con benefici
immediati sul Pil e sul benessere collettivo locale, mentre la costruzione del Ponte è nel migliore dei casi un investimento utile per la prossima crisi e, nel breve periodo, un modo per alimentare retorica politica e discussioni domenicali.

*Vicepresidente Regione Calabria

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