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di ROMANO PITARO
Una cavalcata di messaggi e un’impennata di risvegli. Affetto e solidarietà per Saverio Strati. Tutto qui? Forse no. Però, anche se la giostra si fermasse ora,
sarebbe una bella lezione. Intanto, non si creda che Strati e il suo dolore siano un affare solo calabrese. È invece una ferita enorme, che riguarda l’intera
Italia. L’abbandono di Strati è il risvolto di ciò che Gian Enrico Rusconi (L’Unità del 3 febbraio) ha definito «un Paese decaduto e sfaldato, in preda a un imbarbarimento dei costumi». Lo spettacolo mediatico nazionale ogni giorno tritura migliaia di notizie. Però di Strati neanche un rigo o un’immagine. Se un
uomo della tempra dello scrittore di Sant’Agata del Bianco, è costretto a confessare: «Non ho i soldi per la spesa», l’Italia dei grandi giornali e delle tv spazzatura non gli riserva neanche un box in terza o uno spazio a tarda sera.
Badate: neanche un rigo su un foglio nazionale. La moglie di Bonolis è intervistata da riviste importanti, ma Strati, scrittore da cui non si può prescindere per capire la narrativa italiana contemporanea e il meridionalismo, è ignorato. Morto vivente che cammina. E forse, col suo fardello di citazioni classiche, infastidisce il sistema mediatico che per non incepparsi deve ingurgitare tir di banalità. Contro questo demonio che ha eletto l’istantaneità
a proprio ideale supremo e solletica il peggio della “società inselvatichita” all’insegna dell’ottimismo di maniera, Benedetto XVI e il cardinale Bagnasco
forse dovrebbero osare di più. Ma se cosi è per i giornali, la tv pubblica nazionale, che non nega una ripresa neppure a pluriassassini rei confessi, su Strati avrà fatto chissà quanti servizi, per amplificare il suo j’accuse e
sensibilizzare l’opinione pubblica. Macchè! Su Strati, nel mezzo di un guazzabuglio di programmi demenziali e senza qualità, messi all’indice persino dalla relazione rassegnata al Parlamento dal Presidente dell’Autorità per le Comunicazioni, niente di niente. Nel suo saggio (La veduta corta, il Mulino), Tommaso Padoa Schioppa ricorda che nel novembre del 2008 la regina Elisabetta d’Inghilterra, in visita alla London School of Economics, a proposito del disastro
finanziario, chiede: “Perché nessuno se n’è accorto?” La risposta è, appunto, lo sguardo corto della società. Il dantesco “Or chi s’è tu che vuò sedere a scranna/ per giudicar di lungi mille miglia/con la veduta corta di una spanna?”
Bè, l’indifferenza verso Strati è il segno di “quella veduta corta” dei nostri giorni. Che affligge come un cancro anche i media. Impastati in un nichilismo che non spinge a occuparsi delle cause degli eventi e li induce ad appiattirsi
sull’istante, proprio come si conviene alla “modernità liquida” descritta mirabilmente da Zygmunt Bauman. Inoltre, un autore prestigioso come Strati ha il torto di essere calabrese e di non avere santi in quel paradiso dove Fabrizio Corona è un dio ai cui piedi s’inchinano le agnostiche folle televisive.
Indoviniamo che c’è un Paese senza più memoria, leggendo le dure parole di Strati. E che se una regione non conta nelle stanze dei bottoni del potere
politico, che tutto muove (specie nella tv pubblica), anche i suoi figli di talento sono triturati. Del resto un Paese che, nel cataclisma economico mondiale,
per non smarrirsi del tutto crede per davvero che gl’immigrati siano il male assoluto, come potrebbe occuparsi di Strati e dei suoi libri? Come potrebbe interessarsi dell’autore del Selvaggio di Santa Venere, il mostro mediatico che riflette e amplifica, fin nelle pieghe più nascoste il disorientamento del Paese?
Ha ragione Aldo Grasso, quando dice che è tutto un autoscatto: i premi mondiali, persino lo Strega (pare si sappia già il nome del prossimo vincitore), ma soprattutto la tv italiana che si parla addosso “e non ama confrontarsi con le alterità”. Questo è l’andazzo, caro Strati. Dunque, si rassegni al tempo che viviamo. E ad entrare nel pantheon dei romanzieri, ma post mortem. La Calabria, che avrebbe interesse a valorizzare un protagonista del suo spessore, dato che il suo “non essere” nel circuito dei media che influenzano l’immaginario collettivo,
dipende anche dal fatto che non ha uno scrittore potente e di successo che ne racconti le vicissitudini, è impotente. Non ce la fa a infilarla in uno dei tanti contenitori mediatici nazionali perché, nel cliché imperante, essa può generare solo delitti, mafie, sfracelli ambientali e ruberie. In un Paese normale, “E’ il nostro turno” avrebbe dovuto essere il manifesto di un’intera generazione di nuovi politici tenuti nelle retrovie. O di una generazione conculcata da anziani leader che non mollano neanche se li scotenni: in politica, nel sindacato,
nell’imprenditoria e nelle varie Accademie. E’ invece il titolo, dimenticato, di un grande libro di Strati (Mondatori 1975). Di cui gli italiani di questo secolo
non sapranno mai nulla dalle tre reti della Rai, dai giornali più venduti e dai magazine infarciti di pubblicità.
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