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di PIERANGELO DACREMA
Era facile prevedere, alla fine del 2008, che la disoccupazione sarebbe diventata il nemico pubblico numero uno del 2009. L’Inps ha comunicato che, nei primi due mesi dell’anno, 370.561 cittadini hanno presentato domanda per il sussidio di disoccupazione, corrispondente a un incremento dei disoccupati pari al 46% rispetto allo stesso bimestre del 2008. E’ così ufficialmente cominciato anche in Italia un periodo, non si sa quanto lungo, in cui l’efficienza della macchina statale verrà valutata soprattutto sulla base del funzionamento dei propri ammortizzatori sociali. Non è la prima volta, anche se questa rischia di essere più memorabile di altre, che il nostro sistema economico si trova costretto a sopportare un’impennata del tasso di disoccupazione (dato molto più rilevante e drammatico di una qualunque diminuzione del PIL).
In un’economia di mercato il fenomeno è considerato normale, per quanto disdicevole. E’ il mercato – oggetto, detto senza alcuna ironia, molto più misterioso di quanto non si creda – a imporre un elevato prezzo sociale quando, in circostanze più o meno eccezionali, i numeri non quadrano. Non stupisce che un’azienda con un bilancio deficitario si trovi tenuta a tagliare i costi, tra cui quelli del personale. Ricorrendo al licenziamento di alcuni, l’azienda eviterà il fallimento e la conseguente perdita del lavoro da parte di tutti. E non sorprende che, a seguito di un calo generalizzato dei consumi e delle produzioni, molte attività siano destinate a languire, provocando l’espulsione di tanti lavoratori da svariati settori e creando ulteriori e insormontabili difficoltà per i giovani alla conquista della loro prima occupazione. Stando così le cose, la disoccupazione continuerà ad apparire come un malaugurato incidente e, nella sua qualità di situazione occasionalmente inevitabile, come una triste necessità. Eppure lo svolgimento di una qualunque funzione o mansione utile per sé e per gli altri assomiglia a un diritto più che a un dovere, e non solo perché il nostro Paese è una repubblica (solennemente) fondata sul lavoro. Passatempo obbligato nella vita di chiunque, il lavoro è di per sé edificante, e la condizione di disoccupato – lesiva della dignità di un uomo – di per sé umiliante. Tollerata come una deprecabile imperfezione del sistema, la disoccupazione è in realtà frutto di un’inadeguatezza strutturale dell’attuale versione del concetto di mercato, del suo totale asservimento al valore del denaro, dell’imperativo di proteggere quest’ultimo da mali presunti o reali come l’inflazione, di una rigidità dei meccanismi contabili che impedisce al fatto monetario di penetrare nel fatto economico e di aderirvi come è demandato a fare e come in realtà non riesce a fare. Il disoccupato è un cittadino temporaneamente separato non certo dalla capacità di lavorare bensì da quella (paradossalmente ben più importante) di percepire una somma di denaro prestabilita. E la disoccupazione è uno dei costi dell’economia del denaro, forse il più assurdo, sicuramente il più odioso. Per questo, e date le sue caratteristiche di errore sistemico, la disoccupazione è un problema squisitamente politico che la politica dovrebbe darsi la priorità di risolvere in modo convincente.
In un articolo apparso di recente sul Corriere della Sera, il Nobel per la fisica Sheldon Glashow ipotizza che l’attuale crisi sia esplosa anche a causa della diffusa mancanza di cognizioni matematiche in chi si occupa di finanza. Temo che Glashow, uomo senza dubbio geniale nelle sue discipline, abbia preso questa volta una cantonata. Non e’ un caso, infatti, che tutti i prodotti della finanza derivata – tutti i risultati della cosiddetta innovazione finanziaria – siano stati fondati su modelli matematici formalmente impeccabili. Il punto e’ che esiste una profonda incongruenza tra la matematica dei numeri e la “matematica” dell’economia, fatta, quest’ultima, di concetti diversi dai numeri e pieni di idee, di passioni, di sentimenti e pulsioni imperscrutabili come l’avidità e la paura. Gli uomini sono ondivaghi, si entusiasmano e si avviliscono, prima creano e poi distruggono, fanno crescere l’economia ma la fanno anche crollare. Quale pazzo affiderebbe ai fondamenti dell’economia degli uomini – al sistema dei loro bisogni, dei loro desideri, dei loro strani egoismi e delle loro non meno singolari generosità – il delicato meccanismo del moto dei pianeti governato alla perfezione dalla legge della gravitazione universale e magnificamente spiegato dalla matematica newtoniana? La vera utopia non e’ aspirare a un funzionamento dell’economia e a criteri di produzione e di distribuzione della ricchezza meno rozzi e ingiusti di quelli attuali, bensì ritenere che i numeri possano descrivere il significato delle nostre azioni. Meglio affidarsi al buon senso di decisioni adatte a tener conto degli umori e degli errori delle persone che non a un rigore matematico del tutto estraneo ai comportamenti umani. Meglio partire dal presupposto – e prenderne atto senza drammi o pericolose ideologizzazioni – che Stato e mercato devono dialogare in modo diuturno. Un buono Stato alimenta un buon mercato e vi partecipa attivamente così come qualsiasi altro ente individuale o collettivo. Esiste la proprietà privata e anche quella pubblica. Esiste ciò che e’ meglio amministrato dal soggetto pubblico o da quello privato secondo gli uomini che lo incarnano, secondo le esigenze specifiche, secondo le epoche, le mode e le decisioni che ispirano la gestione del bene. La gamma delle suddivisioni – delle utili e possibili ripartizioni tra pubblico e privato – e’ pressoché infinita.
I sussidi di disoccupazione di oggi sono meglio di niente. E ben venga che bilanci dello Stato più solidi e capienti del nostro possano garantire erogazioni più numerose o più cospicue. Ma non si dimentichi che, spesso, e’ proprio il rispetto delle norme della contabilità a produrre la disoccupazione e anche altri risultati non proprio commendevoli, e tanto meno sperati. Per esempio, non fa venire un brivido lungo la schiena rendersi conto che l’applicazione puntuale degli odierni criteri contabili – in particolare, la valutazione delle attività finanziarie delle banche secondo il principio del fair value, cioè del valore di mercato – potrebbe comportare il fallimento tecnico di molte banche, ovunque nel mondo? Ferme restando le regole del gioco, meglio dei sussidi di disoccupazione sarebbero comunque dei sussidi di occupazione, che se non altro svolgerebbero una funzione anticiclica (anti crisi) e avrebbero la possibilità di essere più consistenti in quanto erogati a fronte dello svolgimento di una qualche attività e non a mero sostegno dei disoccupati. Città, comuni, provincie, regioni, in generale lo Stato, continueranno ad avere bisogno, anche (e soprattutto) nei periodi di crisi, di ingegneri e giardinieri, artigiani e ragionieri, uomini abili al lavoro di qualsiasi provenienza e con la dote di qualunque esperienza o specializzazione. Uomini non più disoccupati ma concretamente occupati. Persone la cui attività si svolgerebbe a favore della collettività, e che verrebbero pagate da tutti non per essere inattive ma per agire a vantaggio di tutti.

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