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di ROBERTO LOSSO
Niente da fare. Almeno per il momento. L’inversione di tendenza non c’è stata. Nonostante la generosità di Walter Veltroni. Che, dopo la sconfitta di Soru e del litigioso centrosinistra sardo, ha rassegnato le dimissioni. I sondaggi parlano di un Pd che continua a perdere colpi. L’ultimo è la rappresentazione più allarmante della sfiducia che attraversa l’elettorato riformista. Nelle intenzioni di voto, il partito che, da solo, pensava di sconfiggere Berlusconi si ferma al 22% (-13,2% rispetto alle politiche del 2008). Ne andrebbe meglio in caso di una separazione consensuale. Infatti, ove mai i soci fondatori decidessero di riaprire bottega, si fermerebbero a quota 20%. Peralaltro con una schiacciante prevalenza dei Ds (13%) sulla Margherita (7%).
Almeno questa è una buona notizia. Perchè m ette l sordina all’pzione “ritorno al passato”, che negli ultimi tempi, sembrava andare di mod tra i cattolici impegnati in politica.
Specialmente quando, adombrarla come possibile o imminente, era utile per crocifiggere Veltroni o per mettere in pista candidature post democristiane nel cuore delle regioni rosse.
Il sondaggio di cui parliamo però dice un’altra cosa. Politicamente importante. Che non c’è stato l’effetto Dario Franceschini. D’atra parte non poteva essere diversamente.
Non tanto per una questione di tempo o di qualità della persona, quato per il fatto che nell’immaginario collettivo, Veltroni e Franceschini erano un ticket. Avevano condiviso tutto. Primarie. Linea politica. Candidature. E governo-ombra.
Non è stata di conseguenza, una trovata convincente pensare che, andando via il “capo”, peraltro carismatico e innovativo, il suo “vice” venisse percepito come l’alternativa appropriata per ricucire lo strappo con gli elettori in fuga.
La tendenza al ribasso, in ogni caso, non è l’unico problema del Pd.
Gliene crea qualcuno anche l’analisi del “dove vanno” i suoi sostenitori in libera uscita.
Si muovono infatti in tre direzioni contrastanti: verso l’Udc (8%), verso l’Idv (8%) e verso la sinistra plurale e socialista (sfiorando il 10%).
Ciò mette in crisi il modello delle alleanze che il Pd aveva prefigurato. Ossia un sistema politico-elettorale orientato al bipartitismo.
Quindi come due grandi partiti calamita che, uno nel centrodestra e l’altro nel centrosinistra, la facessero da padre padrona, permettendosi al massimo il lusso di pochi apparentamenti con formazioni emergenti (Di Pietro per il Pd) o territorali (Lega ed Mpa per il Pdl).
Lo schema funziona per Berlusconi che con il suo 36% ed il patto di ferro con Bossi (9,5%) ha bisogno di pochi consensi aggiuntivi per centrare l’obiettivo maggioranza.
Diventa un buco nero invece , per un Pd al 22%. Perchè gli manca almeno oggi, il peso elettorale necessario per progettare coalizioni a propria immagine e somiglianza. Quindi, fin dalle prossime amminisitrative, dovrà inventarsi un altro Ulivo. Paradossalmente la fragilità del Pd mette in difficoltà anche l’Udc. Pur crescendo nelle urne e nei sondaggi, il partito di Casini vede restringersi le sue possibilità di manovra. Infatti, se il Pd non fosse nelle condizioni di mettere in campo convincenti allenze di “nuovo conio£ (nel Rutelli-pensiero si tratta di pentapartito rivisto e corretto), l’Udc resterebbe con il cerino in mano. L’Aventino? E per quanto tempo? Il suo ventre molle non gradirebbe, invocando un dignitoso ritorno alla casa madre.
Magari con il proprio simbolo accanto a quello del Pdl. E’ già successo. In Sardegna.
Nel frattempo nel Pd calabrese tutto tace. Anche quella variopinta tribù di capicorrente ed aspiranti stregoni che dava scontate le dimissioni di Marco Minniti entro e non oltre il 25 gennaio scorso. Difficile dire se è scoppiata la pace. Oppure se tutti insieme appassionatamente vogliono tenerlo sulla graticola ora che i sondaggi non sono più tanto favorevoli.Neanche sulle rive del Crati e sullo stetto di Messina.
D’altra parte, che ci fossero problemi dentro ed intorno al Pd regionale lo diceva in maniera chiara proprio la ricerca di fine anno commissionata da Minniti alla Ipr Marketing. Ve lo ricordate? “E’ il meno peggio”. Così la stragrande maggioranza degli intervistati (71%), ivi compresa buona parte del suo zoccolo duro (60%), spiegava perchè avrebbe votato per il Pd calabrese.
E come se non bastasse, una percentuale molto alta (54%) lo considerava “poco credibile” (33%) o peggio ancora “per niente credibile” (21%) “per affrontare la lotta alla corruzione”.
Ne andava meglio sul tema sviluppo e disoccupazione (nell’insieme il 57% esprimeva un giudizio critico sull’adeguatezza delle sue politiche per il lavoro).
Il gruppo dirigente allora, tutto impegnato a scambiarsi gli auguri, fece orecchie da mercante. Forse perchè appagato da altre informazioni riservate che, nelle intenzioni di voto, davano il Pd di Minniti (32%) al di sopra di quello di Veltroni (27%).
Adesso che il Pd nazionale è in caduta libera (22%) regge ancora quel 32% del partito calabrese? E’ questa la domanda chiave. Infatti se il suo targe si posizionasse al di sotto del 30% anche la Calabria diventerebbe una regione a rischio. Le prossime elezioni provinciali ed europee ci aiuteranno a capire. Innanzi tutto, se ed in che misura in questi mesi, il Pd calabrese sia riuscito a farsi male da solo.
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