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VIVIAMO insieme come fratelli o moriremo insieme da stolti. È una frase di M.L. King che riassume la nostra situazione sociale con allarmante crudezza. Le compagnie petrolifere non sono invincibili perché ricche o strategiche, sono fatte da uomini, potenti e cinici, che possono sbagliare o indietreggiare, come successo il 4 Settembre 2013. Il Cova sembrava un campo di battaglia, la puzza era insostenibile, il rumore forte e costante, il traffico alle stelle ( per i soliti lavori di cui non si sa niente ) ed il camino spento, privo di fiamma. La frequenza di passaggio dei mezzi per autotrasporti ecologici era quella massima, circa 6-7 camion l’ora, le guardie giurate ( lucane ) sempre pronte a chiederti chi sei nonostante non abbiano l’autorità per farlo ed in aggiunta sostavamo inizialmente su suolo pubblico, oltre la proprietà dell’Eni. Mentre si cercava un posto all’ombra, una squadra di lavoro effettuava la realizzazione del metanodotto dell’Asi, un cantiere pubblico senza alcun cartello di segnalazione e senza alcuna perimetrazione di sicurezza.

Il terreno “dell’Eni” è in realtà suolo lucano, perché la nuda proprietà è della Basilicata e dei suoi figli. Figli che nonostante lauree, il catechismo o il pseudocomunismo da salotto,  dalla storia non hanno imparato niente: se non forziamo le strutture di pensiero attuali non si arriverà a nessun traguardo. L’Eni non è preparata alla protesta popolare, e con essa le forze dell’ordine. Sono colonizzatori che oltre l’arma del denaro non hanno nient’altro. L’Eni è debole perché non ha idee o principi sani a sostenerla, è orfana dello spirito del suo fondatore: l’Eni è fragile con le persone libere ma forte con gli affaristi e gli ignoranti. È questa l’arma per farsi rispettare in casa propria: ridare primato all’uomo negando la dimensione divina del denaro. Se gli ambientalisti di lungo corso capissero l’importanza di adottare metodologie di protesta luddistiche, rivolte ai mezzi di produzione, allora il peso contrattuale della Basilicata cambierebbe, la nostra immagine ovina si riscatterebbe. Qualche dettaglio del blocco mi rimarrà impresso per sempre. Il primo camion del Gruppo Iula che fa retromarcia, il secondo invece, sempre del Gruppo Iula,  fermo ad un metro da me, aumentava i giri del motore per farmi capire le sue intenzioni, ma per fortuna un carabiniere lo ha fatto ragionare deviandolo, come tanti altri camion, verso l’ingresso destinato alle auto.

I funzionari dell’Eni non mi hanno mai rivolto la parola, perché non si tratta coi terroristi, mentre i carabinieri, che ringrazio, hanno sempre dimostrato il loro lato umano, trattandomi fraternamente, e facendomi evitare il reato di resistenza a pubblico ufficiale. Eppure a fine giornata, dopo un bilancio a caldo, con la bocca secca ed amara ed il senso di nausea costante, non ero sereno. Non lo ero e non lo sono perché le forze dell’ordine  sanno dei tumori in aumento, sanno dell’inquinamento, sanno dei soldi che girano e del lavoro ben pagato, ma anche loro, seppur in divisa, da normali cittadini, fanno spallucce alla fine di ogni discorso anche quando ricordi loro che in caso di incidente industriale, una tuta Nbc con cui proteggersi in caserma ce l’hanno, mentre i comuni cittadini no. Le richieste del blocco erano e sono assolutamente tecniche, apolitiche, consegnate dai carabinieri ai funzionari Eni, e mirano a conoscere i dettagli dell’approvvigionamento idrico del Cova, che dovrebbe presumibilmente consumare all’anno circa 40 miliardi di litri d’acqua dolce, fracking escluso, oltre a tutta una serie di dati importanti ma mai divulgati: da come dovrebbe salvarsi la popolazione circostante in caso d’incidente industriale a come reagirebbe l’impianto in caso di sisma, fino a chiedere la “ricetta della nonna” relativa ai fanghi trasportati a Tecnoparco o reiniettati nel suolo. Il tutto accompagnato dal velo di omertà che copre i numeri dei committenti ed i relativi ricavi riguardanti Tecnoparco. L’ennesima prova di oscurantismo mediatico è rappresentato dal sito internet dell’Osservatorio Ambientale Val d’Agri che tranquillamente ignora il sottosuolo, come se non facesse parte dell’ecosistema, ed i “dati” riportati sono per la maggior parte non pervenuti o non monitorati e comunque non aggiornati di continuo e non divulgabili in tempo reale. Parliamo di un’estesa gamma di sostanze, dagli idrocarburi non metanici a quelli policiclici aromatici fino ai composti organici volatili, che accompagnano l’attività petrolifera e sono in tanti casi cancerogeni o dannosi per la salute umana, anche in caso di continua esposizione al di sotto dei limiti di legge, anch’essi vecchi e sottodimensionati rispetto a quelli individuati dell’Oms. La gente del posto è stata annullata, per questo la spinta popolare deve venire da fuori, dai comuni non ancora narcotizzati dai petroeuro. Le pochissime persone libere della Val d’Agri aspettano l’aiuto del resto della Basilicata, che ultimamente si è fossilizzata solo sul discorso di ampliamento ed aumento delle royalties, mettendo sempre in secondo piano ambiente e salute. Una miopia che potrebbe costarci cara, una contraddizione culturale insostenibile. Mettiamo da parte i pregiudizi politici che ci dividono, perché con una terra ammalata non ci sarà spazio politico per nessuna decisione ma solo scelte d’emergenza. Basterebbe ripetere le catene umane o le manifestazioni no-triv nell’entroterra, a vantaggio anche di quelle parti della Basilicata che non bisogna ritenere già completamente compromesse, perché è vero che con le trivelle nel mare la costa morirebbe, ma lo stesso accadrebbe con un entroterra pesantemente inquinato che estenderebbe nel tempo i suoi effetti al resto del territorio. La questione ambientale è la priorità sociale, ed attorno alla difesa dell’ambiente si può creare l’unica piattaforma di coscienza comune. L’Eni ha una sola arma: il denaro. Non dà coesione sociale, amore per la terra, sostenibilità, garanzie sul futuro, riscatto sociale, da solo contanti ma in cambio si prende tutto: dà soldi oggi e deserto domani. Noi potremmo almeno chiedere la verità e capire se la Basilicata è stata sacrificata per un progetto più grande di noi, pretendendo almeno un posto normale in cui vivere e morire di morte naturale: i tumori sono un prezzo preventivato per sostenere il 10% della produzione nazionale? No grazie, la ragion di Stato è ben altra cosa rispetto alla bolletta energetica o alla speculazione internazionale. Un sacrificio come questo non è ammissibile, e lo Stato non può chiederlo ai lucani, lo può proporre solo un privato che agisce con la connivenza dello Stato stesso. A noi la reazione, a noi tocca capire se amiamo davvero questa terra o meno.  Grazie ai due amici che sono riusciti a sostenermi in questa iniziativa nonostante la segnalazione alla Procura della Repubblica: Ulderico Pesce (restauratore – Associazione Valle del Noce ) e Danilo Acinapura. 

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